giovedì 5 settembre 2019

Ode a settembre


Se potessi imbottigliare la tua aria tiepida di mezzogiorno, e la luce obliqua del sole che stratifica bagliori dorati sulle foglie verdastre dei platani, sarei felice. Stapperei la bottiglia una mattina di metà gennaio quando, tra la nebbiolina ghiacciata che sale lenta dal fiume, a stento si percepiscono le linee degli edifici di architettura prussiana. Gli stessi che illuminati dalla luce calda di fine estate,, svettano trionfanti a testimonianza di un passato glorioso stagliandosi nel drappo blu del cielo; a metà inverno sembrano sprofondare negli abissi di un lago ghiacciato e torbido, irrigiditi ed austeri come avvolti da immaginari tentacoli di un kraven. La luce cambia la prospettiva alle cose. E gli odori ne rafforzano il senso. Settembre, caro, non pretendi felicità e spensieratezza esibita come vuole agosto. Tu sei signore, aristocratico procedi ricordandoci l'ordine delle cose: i grembiulini al profumo di amido; i trucioli dei pastelli colorati, i quaderni nuovi, le copertine sui libri, il foglio sfondato dallo spirito dei pennarelli serviti per un disegno troppo colorato. Il batticuore il primo giorno di scuola, l'imbarazzo di fronte ai nuovi compagni, sensazioni di disagio, di inadeguatezza. Caro settembre, mese di lezioni di vita, io di questo ti ringrazio. Ti ringrazio per la possibilità che mi offri nel sentirmi sbagliata o impreparata e per la voglia che mi viene di dimostrarti che non lo sono. Ottobre è il mese dei compiti in cucina, mentre il minestrone borbotta sui fornelli. Ottobre rassicurante, è una balia. Tu, invece, sei quello della cameretta pronta per lo studio, dei pullover tornati sulle spalle di papà; sei il mese del tabacco per pipa che ricomincia ad accendersi profumando il salone. Sei le nostre passeggiate nelle tiepide domeniche mattina, le soste in pasticceria, le corse in bici col vento tagliente che spettina ed inumidisce i capelli. Sei i romanzi pronti da iniziare a leggere, i numeri di telefono di amici nuovi sulla rubrica. Sei la camicetta di giorno e la coperta pesante sul letto la sera. Sei sexy. Sei il profilo dell'uomo che amo mentre si concentra su qualcosa che non mi riguarda.
Se avessi potuto imbottigliare il sorriso di papà illuminato dal sole, l'anno scorso a settembre, quando la consapevolezza che sarebbe stato uno degli ultimi mesi della sua vita non ci impediva di godere di luci dorate ed aria frizzante, lo aprirei oggi. E con quell'immagine tornare ad amare la vita, come non lo faccio da tanto. A settembre.

mercoledì 15 maggio 2019

Rompere il ghiaccio



Immagine: Allegoria della pittura - Jan Vermeer


Ed eccomi qui, di nuovo, a scrivere su questo diario virtuale. Ho cambiato pelle dopo tutti questi mesi di svolte, di lunghe soste, di scontri, di incontri e di perdite importanti.
Mi trovo, attualmente, al centro del mio mondo, Parigi, città piena di ferite ancora aperte, ma comunque sorridente e sempre disinibita sotto un mezzo sole ed un'aria inconsuetamente gelida per essere maggio. I turisti si stringono nelle felpe mostrando la pelle delle gambe avvizzita dal gelo, e quei poveri piedi lividi, lasciati scoperti dalle speranze che porta la bella stagione. Volano tra un museo ed un altro; sostano con i nasi all'insù davanti alla devastazione della cattedrale; chiedono dove mangiare il migliore plat du jour, insomma, accompagnano come sempre le giornate della metropoli più martoriata di questi ultimi anni.
Le ragioni che mi hanno tenuta lontana per svariati mesi da questo piccolo e intimo spazio sul web, rimangono personali, ma al tempo stesso accomunano me a molte altre persone che hanno vissuto periodi di mutamenti repentini e che quindi non hanno quasi mai avuto tempo di fermarsi a pensare articolando pensieri che possano avere quel minimo di lucidità che permetta loro di essere letti e compresi. Quindi, in nome della riacquisita lucidità grafomane, ho deciso di buttare giù un paio di pensierini, per rompere il ghiaccio.

La sala in cui in questi giorni sto lavorando insieme ad altri colleghi provenienti da diversi luoghi sparsi in tutto il mondo, si trova nella sede dell'UNESCO ed ha la forma del mondo; è circolare. Richiama un po' il concetto della "camera a sussurro", cioè qualsiasi cosa viene detta, anche a bassa voce, tutti riescono a sentirla. E va bene, è giusto, stai lavorando ad un progetto insieme ad altri colleghi, e tutti dobbiamo tenere conto delle idee degli altri. Peccato che, l'inconveniente si possa presentare, se una persona fosse abituata a pensare a voce alta. Tipo, ti scappa la pipì, e dici 'mi scappa la pipì', subito dopo, dal momento che ti scappa, pensi che devi andare a farla, quindi dici 'vado a fare la pipì'. La persona che pensa a voce alta è piuttosto lontana dal tavolo di lavoro, e se ci trovassimo in un locale tradizionale, quindi di forma rettangolare, supponiamo, magari il pensiero espresso a voce 'mi scappa la pipì, ora vado a farla' nessuno lo riuscirebbe a sentire. Ma dal momento che ci troviamo nella camera a sussurro o nella camera "in cui è meglio tacere", ogni parola viene captata e dovresti smettere sia di dire insensatezze che di pensare pericolosamente a voce alta. Ne è venuto fuori un interessante confronto, con momenti di vero divertimento. La persona che abitualmente è avvezza ai soliloqui, ha promesso che farà di tutto, nei prossimi giorni, per evitare che ciò avvenga. Ma ci siamo dichiarati tutti contrari, dal momento che l'esercizio di dire tutto ciò che passa per la testa, potrebbe essere interessante da un punto di vista formativo!

Durante una della chiacchierate con il mio compagno di vita, è saltata fuori, in seguito a disquisizioni sul film "A qualcuno piace caldo", la figura di Tony Curtis. Ripercorrendo la cinematografia dell'attore, il mio fidanzato ha detto quella che a me è parsa una castroneria, cioè che Tony era nel cast di Spartacus. Ho cominciato a scuotere la testa sconsolata, pensando che è prerogativa di pochi essere cinefili attenti come me, ed ho pure fatto notare al pover'uomo che avevo accanto, quanto fosse squinternata l'idea che Kubrick avesse preso Tony Curtis per il suo film, insistendo sulle mie ragioni. Abbiamo interpellato, come soluzione finale, Sir Google, che ha confermato quanto la mia cinefilia faccia ormai acqua da tutte le parti, dato che Tony Curtis ha effettivamente preso parte al film Spartacus, nel ruolo di "Antonino" che non ricordavo affatto. Ho cominciato ad arrampicarmi sugli specchi con vergognose giustificazioni da impiegato statale assenteista, tipo che durante le scene in cui appariva Curtis io ero andata a bere un caffè o che era comunque passato troppo tempo dalla visione del capolavoro kubrickiano e che quindi non potevo ricordarne tutti i particolari. Abbiamo colto l'occasione per ripercorrere la biografia di Tony Curtis, che entrambi non conoscevamo. Nessuno di noi due nutre un interesse morboso verso questo attore, ma eravamo imbottigliati in una coda infinita all'uscita della Svizzera e a parte scaccolarsi come i nostri vicini automobilisti, o litigare, non c'era molto altro da fare. Il bel Curtis, occhioni azzurri, ha avuto sei mogli e sei figli, quasi sette perché secondo uno dei suoi libri di memorie, riuscì a mettere incinta anche Marylin Monroe (che poi perse il bambino). Insomma, occhioni azzurri è un mini-inseminator, dato che il maxi è J.S Bach che di mogli ne ha avute solo due, ma può vantare la bellezza di venti figli. Le conclusioni circa la vita di un uomo che è riuscito a sposarsi sei volte, sono abbastanza interessanti. Secondo il mio compagno il tutto è dettato dalla noia, dal potere, dal senso di invincibilità, ecc Secondo me, invece, che sono un'inguaribile romantica, aveva semplicemente tanti soldi da buttare. Si è aperta una discussione circa i disturbi della personalità, la paura della solitudine, l'incapacità di accettare la vecchiaia. Poi siamo passati alle biografie dei serial killer, così, tanto per analizzare meglio la psicologia di chi si sposa sei volte.










martedì 25 settembre 2018

Dopo i colori.



La grande terrazza assolata si apre al mio sguardo, impietosamente ogni bagliore sulle mie pupille viene riflesso dalle pietre grigio chiaro del pavimento che si intersecano formando disegni a mosaico verso i quali non provo alcun interesse, ma che mi trovo costretta a guardare; come i quadri appesi alle pareti delle sale d'aspetto. Mi riparo facendo calare gli occhiali da sole dalla testa al naso, un'operazione che compio innumerevoli volte in estate, quando il sole è quel compagno fin troppo conosciuto, morboso, detestabile, che mi spinge ad anelare continuamente solitudine buia, notte, novilunio e aria fresca rigenerante.
La grande terrazza è piena, capannelli di persone che sussurrano conversazioni infinite con l'accesso riservato. Cerco con lo sguardo il capannello che mi appartiene, quello identificabile da qualche faccia nota; un amico, un parente, un fratello. Un uomo alto, magro, dall'andatura dinoccolata, abbandona un gruppetto di parenti e viene verso di me, con aria decisa mi tende la mano e mi saluta pronunciando il mio nome con accento tedesco. La c dura del tedesco, i toni bassi, la poesia della costruzione sintattica latina: ognuno ha i suoi piaceri, il mio è la lingua tedesca che mai imparerò.
Dottore, come sta? Ci sono miglioramenti?
Le mie domande le sento chiare, nitide, uscire dalla bocca, concretizzarsi in attenzione altrui. Quel leggero tremolio interiore, in attesa della risposta. Quei secondi di sudore freddo tra le dita della mani, il cervello che si spegne, per proteggersi dal colpo, giusto il tempo necessario a non comprendere la risposta.
Scusi non ho capito, le spiace ripetere?
Tento di sedermi trascinandomi dietro una pesantissima sedia in ferro, non trovo corrispondenza dalla parte dell'interlocutore, che rimane fermo in piedi, con aria professionale. Esistono momenti in cui la desideri, la professionalità. Sul lavoro, quando hai bisogno di beni e servizi, quando esigi risoluzioni. E lo sai cos'è. La professionalità l'hai usata, l'hai studiata, l'hai, infine, imparata, per puro spirito di sopravvivenza. Adesso la esigo, ma con moderazione. Sia professionale, ma non troppo. Com'è umano lei quando mi piazza la realtà davanti agli occhi, alle orecchie, sotto questo sole insopportabile, che definisce i contorni rendendoli netti, senza alcuna morbidezza, né grazia.
Lo sa perché il colore preferito da Glenn Gould era il grigio?
Dietro gli occhiali da vista, il dottore alto, magro, dinoccolato, mi fissa in silenzio, si aspetta domande da parte mia. L'unica domanda potrebbe essere quella sul colore preferito di Gould e, come faccio spesso, elaboro dentro di me una risposta lunga, articolata, quasi professionale. Se non fosse per il sudore freddo tra le dita delle mani che mi rende troppo umana, e quindi timorosa e paranoica, io con questo dottore avvierei una conversazione sul grigio. Voglio scoprire cosa ne pensa, se è applicabile, come filosofia cromatica, ad Ippocrate, ad esempio, e a tutte quelle storie sulla natura umana, che tende sempre a lottare per sopravvivere e per preservarsi.
Non è esattamente così, vero dottore?
No, è la risposta. Esiste una zona grigia in cui lasciarsi andare. In cui luce ed oscurità si incontrano per rendere indefinibile ciò che prima era definibile. Sono l'incertezza, la possibilità ed il caso, che fanno il grigio e le sue gradazioni.
E perché non parlare di cinema, o di fotografia? Perché non ricordarsi dei fumetti, che alternavano le pagine a colori a quelle in bianco e nero. Ha mai letto topolino da piccolo? Come si dice topolino in tedesco? Si ricorda la fretta nel leggere le due pagine in bianco e nero, la smania e la felicità nel tuffarsi in quelle a colori una volta girata la pagina? Oppure ero io una fanciullina stupida? Dottore, diciamoci la verità, cosa ne sanno i bambini di oggi con i tablet al posto dei fumetti, della gioia dei colori dopo il bianco e nero? E come non parlare dei film e della loro colorizzazione? Ha presente It's a Wonderful life di Capra? L'ha mai visto colorato? E la faccia itterica di James Stewart?

Quando comincia la terapia?

L'aura luminosa intorno a noi non è grigia, ma giallo chiaro. Il cielo è velato da un sottile strato di foschia che amplifica la luce del sole molesto e morboso. Fa caldo, ma si sente freddo. Come diceva spesso mia nonna non ci si scalda in estate dal freddo interiore. Un vento leggero leggero si alza e mi spettina, i capelli coprono le labbra, le domande non mi escono più. Ci stringiamo la mano, la mia è più fredda della sua.
Ci rivedremo, purtroppo, caro dottore.

Un Pensiero.
Dedico questo breve post a Glenn Gould, nel giorno del suo compleanno, oggi, 25 settembre. Ci ha lasciato il 4 ottobre, all'età di cinquant'anni. Fortuitamente, la vita ha deciso che da tre anni a questa parte, ogni anno, proprio in questo periodo, io mi debba trovare a Toronto per lavoro. La città nella quale è nato, la città nella quale è morto e sepolto, la città che ha avuto la fortuna della consapevolezza, quella di rendere nota al mondo intero, la grandezza di un uomo come lui.
Lo dedico a lui perché Glenn Gould è il principale responsabile del mio amore incondizionato non solo verso la musica, ma verso il suo studio ed il suo approfondimento; la musica ed il suo studio, mi confortano, riescono a dare un senso all'assurdità del dolore. Scardinano ogni limite umano fino a fare percepire l'essenza altrimenti rarefatta, fuori dalla gabbia del corpo; sono il big bang emozionale e mentale che permette di scavalcare il reale per entrare nel sublime.

lunedì 11 dicembre 2017

Tutta la mia verità sul viaggio




Caro vecchio blog,
ho scelto di scrivere a mano, con una penna ed una calligrafia che sto tornando a perfezionare, le mie impressioni su un quaderno vero, con le pagine di carta ed i disegni, gli schizzi di ciò che osservo. Quindi, caro vecchio blog, ti sto trascurando.

Qualche giorno fa, una persona sul treno che da Strasburgo va a Parigi, mi ha parlato di quanto sia noioso viaggiare. Io l'ho ascoltata con il solito distacco e la noia di chi, certi discorsi, li ha sentiti tante volte dentro di sé. Le ho dato ragione: viaggiare è noioso. Il mito, l'idea, quasi indiscutibile, che viaggiare sia bellissimo, è uno dei più grandi inganni che l'umanità abbia mai tirato fuori dal cilindro. Forse lo era, bellissimo, quando il viaggio rappresentava una conquista a lungo anelata. Quando il viaggio era un'odissea piena zeppa di prove fisiche e spirituali. Quando l'ignoto di mondi immaginati, o narrati attraverso il passaparola e l'epica, spingeva la curiosità dell'uomo e la dotava di forza propulsiva esponenziale. Il viaggio, sì, rappresentava il sogno, il mito, la scoperta: la sfida. Cos'è oggi? Oggi è una serie di pratiche omologate, un rito sempre uguale a se stesso; un fast food di spostamenti a catena in cui l'unica sensazione che si avverte è quella di far parte di una massa informe, globosa, che scivola da un posto all'altro. Cancellata ogni forma di romanticismo, di mistero o suspence, il viaggio è una gran rottura di palle. Guai a dirlo a chi ne fa un vanto mostrando il passaporto pieno zeppo di timbri. Guai a spiegarlo a chi si sente un povero sfigato se almeno una volta al mese non prende un aereo.

Cari amici, gli sfigati siamo noi che viaggiamo. 

Durante i miei spostamenti, penso a tutto tranne che al viaggio. Cerco di ottimizzare i tempi, con la consapevolezza che tutte le ore perse per spostarmi, rappresentano tempo sottratto alla musica, all'amore, ala cultura, al gioco; alla vita. Ore, su ore, su ore; giorni, mesi. Occhiaie che avanzano, luoghi sudici, contaminati da chissà chi, con il quale chi non condivideresti neanche una chiacchierata, figuriamoci lo schienale di un sedile, dove hanno transitato i suoi capelli sporchi, unti, pieni di forfora. Treni, cara vecchia Europa, velocissimi, ma lerci. Frequentati, anche, da soggetti loschi, che si aggirano nelle stazioni di notte col solo scopo di essere dannosi per gli altri. Aeroporti dove ti trattano come bestiame, ti scandagliano come un pezzo di fabbrica: ti scrutano, ti fanno togliere le scarpe, riti da campi di sterminio, se mi è permessa la surreale iperbole. Ritardi, ritardi ovunque. Il mito, tutto italiano, che nei paesi del centro d'Europa i treni siano sempre puntali. La fesseria, ancora una volta. E l'Inghilterra, aaah, l'Inghilterra, ancora ferma ai tempi della rivoluzione industriale, grazie alla cultura chiusa da conservazione (come la definisco io).

Insomma, viaggiare non è romantico, non è bellissimo. È semplicemente brutto e noioso. La consapevolezza, quella luce abbacinante che illumina tutte le cose e te le mostra per ciò che sono, e non per ciò che credi che siano. L'immaginazione ed il mito, illuminati, diventano ordinaria banalità. Non c'è niente sotto, niente dentro, niente tra le righe. Come le discoteche di giorno. È tutto, quindi, così come lo vedi: un carrozzone di merci e persone. Lo scopo, solo quello, il tuo. Ritornare a casa, tra parole che sono lo scopo. Entrare nel proprio luogo, costruito, pensato, per viverci. Sto amando più che mai casa, la mia città, Strasburgo, piccola e gioiosa, vivibile, cordiale. Detesto le metropoli, agglomerati di solitudini, nelle quali perdere prima di tutto se stessi. Le attraverso velocemente, per lavoro, il più delle volte. Lo scopo: il lavoro. Che è anche una passione, una realizzazione personale, una conquista, la strada trovata e a lungo anelata. Il vero viaggio, quello che ho intrapreso per capire cosa voglio, chi sono. L'unico significativo, esclusivo, igienico e puntuale. Capita a tutti. Non esistono documenti, biglietti o applicazioni. Il viaggio con se stessi, dentro la profondità di ciò che siamo, per arrivare a destinazione. Incontreremo, lungo la strada, tanti personaggi, anche individui loschi, poco rassicuranti, ai quali daremo, per sbaglio, fiducia. Impareremo che i nostri sentimenti, per quanto puri ed unici, possono essere anche calpestati, ignorati, strumentalizzati. Per questo dobbiamo averne cura. Capiremo, quindi, ed impareremo, quindi. Anime notturne, care amiche, nel buio della nostra inquietudine, abbiamo dialogato a lungo. Ci siamo spostate da un luogo all'altro, ritrovate e poi perdute, per poi ritrovarci ancora una volta. Fantasmi della notte, ululati alla luna, creature mitologiche. Lo studio, approfondito, delle nostre passioni. La lettura forsennata, i libri lasciati ovunque; i capolavori custoditi ed i mediocri, dimenticati freudianamente sui sedili del treno o nelle stanze degli alberghi. Leggo per capire chi sono, ascolto musica, ne studio il componimento: l'armonia, una delle ragioni di vita. L'amore e la passione che mi spingono e, come Adorno mi ha insegnato, cerco sempre il simile nel dissimile.

Cara casa, quindi, sono io. Ed alla fine di quest'anno, tribolato, mi sono finalmente fermata. Il viaggio, quello vero, non è ancora terminato, lo so, sono pronta a rifare i bagagli e a salire, ancora una volta, in carrozza.

Ma per il momento, un lungo, lunghissimo momento, rimango a casa, Amore Mio.

"Il sentimento di aver messo la sua vita tra parentesi, d’averla appesa a un filo a sgocciolare, non gli era poi così sgradito. Non voleva far altro che acquattarsi sul fondo, questo viaggio era solo un pretesto per fuggire, un modo per rendersi conto che non aveva legami da nessuna parte. Gli uomini di questo posto erano stati risucchiati in un buco nero. Ne approfittavano per fare pulizia, uccidere gli antichi demoni, cacciare i fantasmi dal loro piedistallo e chiudere le ferite aperte. Ma lui? Non aveva nulla di particolare da dimenticare, non aveva niente di suo, a parte un nome e un cognome"

Sono il Guardiano Del Faro - Éic Faye

venerdì 25 agosto 2017

Un pensiero, prima della morte che non avvenne


(foto scattata a Parigi, Novembre 2016  qui)




Premessa:
non riuscirò mai a descrivere a parole quello che si prova in certe circostanze, è un limite mio, non sono una scrittrice. Però posso, grossolanamente e a distanza di mesi, descrivere quello che ho pensato durante una delle tante attese, in una stanza di ospedale, della durata di una decina di minuti. Il mio Dio delle piccole cose, quello al quale mi rivolgo per esaltare ed imprimere nelle cellule della mia epidermide, istanti che sono per me formativi, indelebili, essenziali alla mia sopravvivenza.
Siamo tutti composti da piccole cose.


L'infermiera mi guarda distrattamente il collo mentre alzo le bracca e mi sfila il maglione dalla testa, come faceva mutter quando ero piccolissima.
"Sgnora Leblanc, adesso arriva il dottore, si sdrai e cerchi di riposare".
Riposare dall'idea che, forse, da un momento all'altro mi potrebbe esplodere il cervello.
Fisso il soffitto verde per pochi secondi, poi prendo il telefono. Cerco su google la parola aneurisma. Ecco, com'era prevedibile, deriva dal greco antico. Ho sempre preferito le parole latine, sarà perché nonna L era una latinista che parlava in latino con i suoi colleghi insegnanti, ed io da bambina mi incantavo nel salotto di casa sua, seduta sulla poltrona verde, quella di velluto pesante con ghirigori fiorati, ad ascoltare adulti che discorrevano un po' in francese e un po' in latino. Parlavano di argomenti che non capivo, però ne intuivo lo spessore, l'importanza; come se tutto il fondamentale dell'universo avvenisse dentro le quattro mura di quello studio, pieno zeppo di libri, tappeti e odore di sigarette spente. Mi sedevo composta, senza fiatare, per paura di disturbare o di attirare l'attenzione.
Vuoi vedere che anche la parola neoplasia deriva dal greco antico? Ovvio,  c'è neus. Mentre aspetto il dottore, per distrarmi, cerco di pensare a qualche patologia grave, degenerante o mortale, il cui termine derivi dal latino. Invece finisco per approfondire le mie ricerche sull'aneurisma cerebrale e trovo scritte cose orrende. Sarà quello il mio destino, fredda, nel fiore maturo degli anni, esposta in una camera mortuaria, con parenti e amici che mi guardano la faccia di cera mentre si soffiano il naso. Penso ai miei bambini e caccio via l'idea della morte, digito aneurisma cerebrale guarire. E un po' mi incazzo; non posso morire, non me lo posso permettere. Ho deciso di non morire il giorno che ho saputo di essere incinta, la prima volta. Crescere da sempre con l'idea che la propria vita termini, prima o poi, è una mia peculiarità da allegrona; da cuor contento in corpore vacillante. Sono andata vicino, ma non sono mai morta. Mi sono sempre chiesta il perché; perché sono come dicono tutti "fortunata". Le probabilità che uno muoia facendo un incidente in autostrada o cadendo da un cavallo al galoppo, sono elevatissime. Io invece no, non sono mai morta. Sono rimasta deturpata dentro, sono cambiata, se possibile peggiorata. Sono diventata un'altra, una persona diversa, suscettibile e irascibile, impulsiva da quando ho capito che se non si dimostra tutto e subito, si perdono attimi di vita. E indecisa. Incerta, è il termine adatto. Talmente convinta della mie incertezze, da essere refrattaria nei confronti dei punti fermi. Ma essere sicuri delle incertezze, non è a sua volta una certezza?
Il risultato delle ricerche su google dà ragione a quello che hanno detto i medici. Il genio neurologo occhialuto libanese, che si muove all'interno del reparto come mia madre tra i suoi gatti, con dedizione, affetto e familiarità, me l'ha appena detto che non morirò perché lui annienterà questa patologia greca. Ho deciso che qualsiasi termine medico di origine greca esiste perché l'hanno inventato i greci antichi. Immagino Cinisca e Elpinice che disquisiscono sul perché esiste l'aneurisma nei cervelli degli ateniesi e degli spartani. Chi ce l'avrà più grosso? Sicuramente gli ateniesi! Asserisce convinta Elpinice. Provare ad annientarlo praticando un piccolo foro nel cranio e poi inserire una cannula di bambù, è la teoria di Cinisca. Per fortuna Elpinice ha un'altra geniale idea, che sottolinea, ancora una volta, la superiorità degli ateniesi. La stessa idea del genio libanese che mi vuole salvare la vita. Funzionerà? Cerco su google.
Se non dovesse funzionare, raggiungerò mia nonna. Mi manca tanto e non lo dico mai, lo penso sempre, però, continuamente. Ogni luogo che sfioro, ogni scarpa che indosso, ogni parola che leggo, ogni sorso di tè che bevo. Mia nonna è in ogni nota suonata la piano, in ogni croma e semicroma; in ogni pausa relativa. Il suo sguardo fiero, le sue piccole gomitate a cena, quando a causa della mia quasi totale assenza di diplomazia, guardavo e dicevo cose irritanti. La sua cultura, che mi ha accompagnata per 34 anni, senza mai lasciarmi un solo istante. Mi diceva che la nostra fortuna, mia e sua, è di essere donne curiose nei confronti dell'erudizione come le scimmie di Francis Bacon. Me lo diceva quando ero troppo giovane per capire che era un complimento, una forma di stima sconfinata verso di sé e verso di me, dove vedeva parte di quello che era. Ho avuto un'educatrice, la migliore potessi avere. La fortuna della mia vita. Che, volendo, potrebbe anche finire a causa di questa patologia greca che si annida spavalda ed inopportuna nel mio cervello, senza che nessuno l'abbia invitata.
Butto il telefono sulla poltroncina accanto al letto, con gesto di stizza, odio nei confronti di quest'universo delle risposte. Tutto contenuto in un apparecchietto fatto in Cina. Avete fatto caso che quando qualcuno vuole sapere qualcosa su qualcun altro lo cerca subito su google? A me non interessa scoprire prima del tempo chi siano le persone, a cosa serve saperlo? Sono talmente tante le risposte a nostra disposizione, che spesso ci facciamo domande superflue. L'obesità mentale dovuta alle troppe risposte, che corrisponde al sovrappeso del mondo cosiddetto civilizzato. Cibo, cibo ovunque, in ogni circostanza, persino nelle presentazioni dei libri, che basterebbe nutrire la mente. Cibo sui mezzi di trasporto, cibo in bagno (ho visto ciotoline con le caramelle vicino ai lavandini), cibo durante le riunioni di lavoro e durante le pause; cibo per le strade, nei vicoli più impensabili. Cibo surreale, innovativo; cibo infilato dentro le macchinette negli ospedali, nelle sale d'attesa, nelle università, nei sottopassaggi. Cibo inscatolato, surgelato, sottovuoto, liofilizzato, modificato, veganato, vitaminizzato, spremuto.
Le riposte sono diventate come il cibo. Ce ne sono troppe, ovunque, sempre a disposizione. E noi ci muoviamo grassi e flaccidi, apatici, viziati, in questo mondo pieno zeppo di responsi.
Non mi importa niente di quello che dice il web, la realtà dei fatti è che esiste un rimedio per quello che ho, ma che non si sa come andrà a finire, con certezza. D'altronde le certezze annientano l'evoluzione del pensiero. La mancanza di punti fermi ha favorito tutti i movimenti culturali e filosofici. Persino la scienza si è evoluta grazie al dubbio, che stimola la ricerca e l'approfondimento.

Il genio libanese salvatore di vite, entra nella stanza, mi accarezza la testa, e il suo sguardo dietro gli occhiali tondeggianti è rassicurante, sembra dirmi "non ti preoccupare, anche se muori sarà bellissimo".


Although the whole of this life were said to be nothing but a dream and the physical world nothing but a phantasm, I should call this dream or phantasm real enough, if, using reason well, we were never deceived by it.

Gottfried Wilhelm von Leibniz

domenica 25 giugno 2017

Be a human being with wings tra J.S. Bach e David Lynch, prima puntata.

(L'immagine sopra è presa da questa fonte e rappresenta lo schema strutturale di Inland Empire)

Tra le tante cose che J.S. Bach e la sua musica mi hanno insegnato, c'è il fatto incontrovertibile che l'incomprensibile vada affrontato con tutti i mezzi di cui disponiamo. Non per capire, non è detto che il risultato finale sia una vittoriosa quadratura del cerchio; ma per spingere, attraverso la forza propulsiva della sete di conoscenza, la nostra mente ad un approfondimento duro e faticoso, ma estasiante.
Spiegare in questa sede, come J.S. Bach abbia spinto l'essere umano assetato di sapere, verso la tortuosa e faticosa strada della conoscenza, è complicato e al tempo stesso riduttivo, ma doveroso nei confronti di tutti quei pensieri che affollano la mia mente e che chiedono estrema chiarezza, pragmatismo e fiducia nel mezzo (internet, un blog del nulla, quei pochi sventurati che mi leggeranno ecc.).
Mi limiterò, quindi, a citare solo una delle opere di Bach usate come strumento artistico atto allo sviluppo della curiosità e della ricerca (essendo io, fermamente convinta, che l'opera omnia di Bach sia essa stessa strumento). La massima opera è, senza ombra di dubbio, L'Arte Della Fuga. Cos'è? Musica, è la risposta. Non musica qualunque, ma musica colta. Non musica colta qualunque, ma musica colta complessa. Non musica colta complessa qualunque, ma musica colta complessa enigmatica. Non musica colta complessa enigmatica qualunque, ma musica colta complessa enigmatica pitagorica. E direi di finirla qui, anche se potrei proseguire. Nella costruzione del periodo appena scritto ho usato una forma geometrica frattale? Io credo di sì. 
Tornando a Bach e all'Arte Della Fuga, perché mai, J.Sebastian avrebbe dovuto renderci la vita così complicata? Perché mai, nel suo testamento compositivo, con il quale intendeva lasciare agli studenti di musica un'eredità didattica, è così enigmatico, chiuso, catalizzatore di domande, enzima per processi logici che portano ad altri processi logici che portano verso altri e poi verso altri ecc? Perché.
L'Arte della Fuga è un puzzle enigmatico, che possiede al suo interno tre strutture filosofiche e matematiche portanti. Tre colonne: il Tetraktis, il Contrappunto e la Musica Delle Sfere. Non credo sia questo il luogo, né è mio ruolo o compito, spiegare in cosa consistano le tre colonne portanti su cui si struttura tutta l'architettura dell'Arte Della Fuga. Ma è utile ricordare che l'accesso all'enigma di Bach, è possibile solo ed esclusivamente dopo aver acquisito la conoscenza delle tre colonne. Altri passi sono da fare una volta entrati nell'enigma. Occorrono logica, perseveranza, approfondimento, studio. Occorre essere human being with wings, dove le ali sono le curiosità e la sete di sapere, di conoscere. Ecco perché la musica di Bach è formativa; ecco perché la musica di Bach si eleva rispetto a tutta la musica; ecco perché l'Arte Della Fuga è considerata l'opera compositiva più complessa che l'essere umano abbia mai composto.

Ma veniamo al passo successivo, e cioè, perché David Lynch è così vicino intellettualmente a J.S. Bach? (secondo chi sta scrivendo, beninteso)
Chiunque detesti il cinema di David Lynch vede l'autore come un appassionato di farneticazioni, fuffa senza una precisa logica, disturbante senza un perché. Però, sia che lo si detesti o che lo si ami, per tutti, il cinema di Lynch è un enigma. Il fascino dell'enigma è antropologico, e nasce con l'evoluzione del pensiero umano, con la filosofia greca, con i miti. Quindi possiamo dedurre che chiunque non si interessi agli enigmi sia un essere umano non evoluto intellettualmente? Io credo di sì.
L'enigma è metafora, in questo caso. Non c'è un premio, non si rischia di venire strangolati se non lo si risolve (come davanti alla sfinge); molto probabilmente non esiste neanche una soluzione. Il punto interrogativo, l'ignoto, la consapevolezza o il dubbio che dietro al non-comprensibile si celi la logica, tutto questo rappresenta il fascino dell'enigma.
Come ho fatto con Bach, anche nel caso di David Lynch prenderò ad esempio una sola opera: Inland Empire. Il suo 'testamento', esattamente come l'Arte della Fuga per Bach (Lynch ancora è fra noi e ci rimarrà un altro centinaio di anni, ma considero Inland Empire la chiusura di un cerchio).
Un neofita che si avvicina a Lynch e che decide di partire da Inland Empire, molto probabilmente non reggerà il colpo. C'è chi parla di 'cinema che va vissuto senza farsi domande', ma è possibile? Può, un human being with wings non farsi domande? Solo gli innamorati si impongono di non farsi domande (che è un po' come guidare a fari spenti nelle notte). Quindi, diamo per assodato che quando ci avviciniamo ad un'opera d'arte, le domande sbocciano come margherite sotto al primo sole di maggio, e che non farsele rappresenta ottusità e autodisciplina dannosa per la nostra mente.
Inland Empire che a prima vista può sembrare un'opera cinematografica senza senso, un delirio continuo, è, a tutti gli effetti, una gigantesca opera geometrica e filosofica. Una delle più grandi viste al cinema, è, a tutti gli effetti, un capolavoro.
La struttura del film sfrutta il concetto di geometria assiale, tanto caro a Bach. Cioè mette in fila mondi paralleli, e lo fa attraverso l'ipotassi, cioè subordinando un mondo all'altro attraverso un filo logico consequenziale. I vari mondi sono in connessione tra loro anche attraverso una linea che mescola, usando ragionati e repentini cambi di mondo (come quando si cambia una stazione radio, cambia la musica, cambia la frequenza, cambia il momento, repentinamente) diversi piani temporali. Quindi l'operazione che viene fatta all'interno della struttura narrativa del film, è quella dello schema parallelo tra mondi (contrapposto all'incassonatura, che Lynch usa spesso nei suoi schemi) e la trasformazione dei confini tra mondi in soglie attraversabili (ipotassi). Nikki Grace, la protagonista del film, è l'essere umano che utilizza le soglie per passare da un parallelo all'altro. La struttura della linea del tempo, nella poetica lynchiana, può essere lineare ma solo all'interno di un mondo, non lo è quasi mai nel complesso della sceneggiatura. E, come abbiamo visto anche nelle prime puntate della nuova stagione di Twin Peaks (da analizzare, da studiare, ancora non l'ho fatto) arriva a non esserlo neanche all'interno di un mondo. 
Inland Empire è chiaramente l'esperimento finale nel quale si dimostra che gli schemi narrativi possono essere destrutturati, ma nella loro destrutturazione, obbedire a schemi nuovi, complessi. In questo senso Inland Empire è sperimentale. Probabilmente un esperimento destinato a non avere un seguito (come l'Arte della Fuga), ma decisamente legato ad una espansione del pensiero. La teoria della relatività del tempo ci ha insegnato, soprattutto, che i fenomeni variano cambiando la prospettiva. Lynch ha creato un cinema in cui la nostra prospettiva 'tradizionale' non è più adatta. Lynch ci costringe a metterci in discussione, ci fa cambiare posizione, ci spinge, attraverso l'escamotage dell'enigma, dell'incomprensibile, ad uscire dai nostri schemi. In sintesi, ci fa crescere, ci fa diventare human being with wings. 

Ecco perché il cinema di Lynch (per chi volesse approfondire gli schemi matematici, geometrici e filosofici, consiglio la lettura di Interpretazione tra mondi di Pierluigi B. Fossali), così come la musica di Bach, non possono essere semplicemente vissuti passivamente, ascoltati o visti senza studiare. Pur rimanendo incontestabile la bellezza assoluta delle immagini e della musica; fermo restando il concetto che l'arte e la bellezza debbano essere accessibili anche a chi non possiede strumenti di analisi; sarebbe auspicabile un mondo in cui ogni essere umano decidesse di mettere le ali. Non importa quando, non importa come, ma l'arte è cibo: nutriamocene ed evolviamo, fino a prendere il volo.


mercoledì 22 marzo 2017

Piccolo pensiero impressionista




Nel tavolo accanto al mio, al caffè, in una mattinata soleggiata di metà marzo, siede una signora. L'età è quella di mia nonna quando mi lasciò, così, senza dire niente, senza avvertimento, nel pieno delle sue aggraziate e ingombranti facoltà mentali. Ha un cappellino di feltro, una sciarpa rosa pallido tenuta ferma da una spilla di turchesi, ed i capelli bianchi vaporosi che sbucano da sotto il cappellino lasciando immaginare una capigliatura simile a quella di una Medusa di Ovidio, prima delle mutazioni di Atena. Io continuo a scrivere la mia relazione per il lavoro, ma la concentrazione svanisce ogni volta che alzo lo sguardo dal monitor per ammirarla come fosse una donna di Monet sotto al suo parasole.
La luce è quella tenue e tersa di tutti gli inizi di primavera, quando le giornate grigioperla a sprazzi, lasciano spazio a momenti di azzurra luce ultravioletta che irrompe in ogni petalo appena sbocciato e in ogni piccola nuova fogliolina verde.
Potrei decantare le virtù della mia terra in primavera, ma il mio canto flautato sarebbe lo stesso di chi la vive in un altro angolino di pianeta, risultando noiosa, trita e retorica.
La signora si accorge di me, e mi sorride dietro alla tazza arricciando gli occhi e rendendoli piccoli e brillanti come punte di diamante. Ci salutiamo con un bonjour e continuiamo le nostre attività. La mia richiede un wifi, la sua un paio di occhiali che leva e mette con estrema lentezza ed infinita grazia, persa, oggi, in chissà quale dimensione dello spazio. Invidio la pacatezza di chi conosce la vita e ne assapora ogni minuscolo istante con la consapevolezza che gli attimi non vanno per forza riempiti di qualcosa o con qualcuno. Il tè o il caffè che beve, ha la stessa composizione chimica del mio, ma il suo è sicuramente più buono, ed ha raggiunto la temperatura ideale perché ha saputo aspettare prima di berlo, invece di infliggersi ustioni pur di prendere, eseguire, finire, per poi alzarsi, chiudere e ripartire per un altro luogo dove di nuovo prendere, eseguire, finire e alzarsi.
Impressionismo, la corrente che formalizza i colori vividi, che rende l'aria fresca e satura di profumi, en plain air, dove gli alberi sono blu e i laghi tinti di giallo

E dove le donne con l'ombrellino non hanno nessuna fretta.



<<Il serait curieux d'étudier les changements qui se produisent parfois dans certains organismes, à la suite de circonstances déterminées. Ces changements, qui partent de la chair, ne tardent pas à se communiquer au cerveau, à tout l'individu.>>

Emilie Zola