giovedì 19 dicembre 2013

Chiudo così, con un pezzo di vita




Ero partita con lo scrivere una classifica dei film più belli visti al cinema nel 2013, ed una dei dischi più belli comprati sempre nel 2013, poi ho avuto una folgorazione sulla via di Damasco e ho deciso che quest'anno, dopo non so quanti anni, queste due classifiche non le faccio.

Io ho una famiglia piuttosto allargata. Ho due madri, una che mi ha procreato, conosciuta quando avevo 16 anni, e una che mi ha cresciuta da 0 a 18 anni, età in cui sono andata via da casa. Ho un solo padre, e un half-brother compreso nel pacchetto di casa
La mia prima madre, quella che mi ha cresciuta, è ebrea. Mio padre, invece, è cattolico. Ne consegue che a casa mia, fino a quando ci ho vissuto, la visione della vita è stata sempre complicatamente variegata.
Ho conosciuto mia madre biologica, Lisbet, quando avevo 16 anni, proprio in questo periodo: era il 19 Dicembre del 1997. Partii da Ginevra con il TGV, la linea ad alta velocità che raggiunge Parigi. Di lei conoscevo la voce, avevo visto delle fotografie, e sapevo che faceva la cantante e l'attrice a teatro. Per me era un'avventura, avevo scelto di andare a conoscerla senza rifletterci più di tanto, spinta soprattutto dall'ennesimo moto di ribellione.
Avevamo parlato al telefono poche volte e mi aveva trasmesso un senso di profonda malinconia, nonostante nei miei sogni la immaginassi sempre come la fata Turchina, serena e bellissima. Forse è stata proprio quest'aura malinconica, questa vena auto distruttiva che percepivo nelle poche parole scambiate al telefono, a farmi venire voglia di andare a incontrarla.
Lisbet non venne a prendermi alla stazione, perché aveva le prove a teatro. Ricordo che presi un taxi e che andai all'indirizzo che mi ero segnata. Abita all'ultimo di cinque piani di un palazzo tipicamente parigino, con i pavimenti scricchiolanti e la catenella alla porta d'ingresso. Mi aveva detto che m'avrebbe lasciato le chiavi sotto lo zerbino e che dovevo suonare al primo campanello del portone, mi avrebbe risposto una signora anziana, io dovevo semplicemente dire "Bounjour, je suis la fille de Lisbet" e lei mi avrebbe aperto.
Entrata nell'appartamento rimasi stupita: una donna di 35 anni che incontra sua figlia per la prima volta in teoria le dovrebbe far trovare una casa pulita ed ordinata. Sembrava, invece, abbandonata frettolosamente. Io abituata all'ordine cristallino e al rigore di casa mia, non riuscivo a credere che si potessero lasciare le briciole sui divani, i gatti sui cuscini del letto, i vestiti per terra, il bagno con il rubinetto che gocciola e un biglietto sul tavolo, vicino a qualche centinaio di Franchi, con sopra scritto à la Brasserie en bas on y mange très bien!! (alla tavola calda sotto casa ci si mangia molto bene).
Mi ero immaginata tutt'altro scenario.
Dovevo rimanere a Parigi tre giorni, già pensavo che quell'appartamento non sarebbe bastato per me e Lisbet, c'era solo una camera da letto, ed i divani nel soggiorno erano troppo corti, e rigidi.
Mi sedetti in cucina, di fronte al biglietto e ai soldi, e nella mia testolina da adolescente casinista con smanie sovversive, mi resi conto di aver fatto un errore. Forse non ero così "enfant terrible" come credevo di essere, non ero neanche pronta per affrontare madri mai viste.
Guardandomi intorno notai che non c'erano fotografie di Lisbet, solo la locandina teatrale di un musical, dove il suo nome compariva tra la fila di quelli dei coristi. Immaginavo, invece, l'appartamento di una persona di spettacolo, come una sorta di mausoleo dell'ego.
Lisbet arrivò alle sette di sera, entrò a casa mentre io stavo leggendo una rivista trovata in bagno, o per lo meno, mi sforzavo di farlo. Mi trovò seduta sul divano come si trovano i pazienti nella sala d'attesa. Era tutta imbacuccata, con un berretto a righe blu infilato in testa che le copriva quasi tutti gli occhi, uno sciarpone ciondolante e un cappottone color miele che le arrivava fino ai piedi.
Non so descrivere la sensazione che provai, ma mi sentii quasi sollevata nel vederla così. Mi venne incontro, non ricordo se riuscii ad alzarmi dal divano, so solo che il lungo abbraccio avvenne proprio sul divano. Indossava ancora il cappello e il cappotto, solo la sciarpa le era scivolata per terra andandosi ad infilare tra i piedini a zampa di leone del tavolino basso; aveva le mani congelate ed arrossate, gli occhi verdissimi stanchi e odorava di fiori e sigarette: era, ed è, bellissima, di quella bellezza che scalda il cuore. Mi trascinò giù per le scale tirandomi per la mano, e ripetendo ossessivamente che l'ascensore le faceva paura. Mi spiace che non hai mangiato, mi spiace aver fatto tardi, mi spiace veramente, sono un disastro. Arrivammo alla brasserie, ed è proprio là che è iniziato il nostro rapporto. Pensavo di trovare al massimo un'amica, invece trovai una madre, un'altra, quella che incarna la parte di me che credevo fosse semplicemente spirito sovversivo, indolenza, e insofferenza verso tutto ciò che non appartiene al mio modo di vedere la vita. Dietro al disordine, agli spiccioli sparsi nei posti più impensabili, ai vestiti sdruciti e le file di piatti nell'acquaio; dietro ad una vita piena di rimpianti, di passioni bruciate in pochi mesi, di esperienze vissute d'istinto, ci sono le radici di una solidità che ignoravo potesse esistere, che è quella dei sentimenti sempre rinnovati, dell'affidarsi agli altri e nel continuare a credere nei sogni. E' quella dell'onestà dell'animo, che in pochissimi hanno. Capisco perché mio padre perse la testa per lei 31 anni fa, e sono felice l'abbia fatto.
Oggi Lisbet non è diversa da come l'ho vista la prima volta. Grazie a lei ho vacillato più volte, mi sono messa in discussione. Tante delle cose che faccio e che farò, le devo a quel 20 Dicembre del 1997, all'apertura del sipario che per troppi anni è rimasto chiuso, a quegli occhi verdi che mi hanno spesso spinto verso lidi che non mi ero concessa di esplorare. Quando si richiuderà il sipario io avrò raggiunto un equilibrio, e credo proprio che ciò avverrà alla fine dei miei giorni.
Finirà lo spettacolo quando non sarà rimasto più nessuno ad applaudire.


Fare la cantante vuol dire fare anche cose così.
Lisbet


Le Poète est semblable au prince des nuées 
Qui hante la tempête et se rit de l’archer; 
Exilé sur le sol au milieu des huées, 
Ses ailes de géant l’empêchent de marcher.
Charles P. B.

mercoledì 18 dicembre 2013

Tempo di classifiche: le migliori dieci scopate del 2013, nomi e cognomi.



Ormai lo sanno tutti che è un'esca, però mi fa troppo ridere il titolo: è da due anni che rido per questa cosa.
Prima classifica, ne seguiranno altre. Chi mi conosce sa quanto le ami. Questa è la top ten dei miei momenti salienti.

Si parte sempre dalla decima posizione, anche se la classifica - in questo caso - segue un ordine di importanza difficile da capire (cioè lo capisco solo io)

10 - Ho finito di finanziare la Pampers: miglior traguardo raggiunto

9 - La peggiore compagnia aerea del 2013 è (rullo di tamburi) Meridiana, la migliore Emirates Airline

8 - Peggior periodo fisico: quando mi sono maciullata la caviglia, preso chili e nevrosi varie

7 - Miglior viaggio: Marocco. Peggior viaggio: New York

6 - La notizia dell'anno: corso nel 2014 all'American Academic of Dramatic Arts

5 - Miglior concerto: Antony and the Johnsons.

4 - Medicinale più gettonato: Xanax

3 - Miglior soddisfazione in terra straniera: patente norvegese

2 - Il più grosso cambiamento: lavorativo. Credo che continuerò su questa strada (forse, penso, si, no, non so, dipende, non risponde)

1 - Cose imparate in via definitiva: rilassarsi, attendere, stare lontana dalla folla.

mercoledì 20 novembre 2013

La gravidanza splatter, anche un po' emo



In questi giorni mi è capitato di leggere polemiche di vario livello in merito al cimitero dei feti, che solo a scriverlo mi tremano le mani. Non credo che sarei riuscita a parteciparvi con la giusta disinvoltura, non per questioni etiche né morali, ma perché trovo tutto, polemiche comprese, abbastanza macabro e fuori luogo. Il dolore è soggettivo e personale, e deve essere libero di esprimersi.
Tra i vari articoli e post che mi sono capitati sotto gli occhi, ne ho letti alcuni in pieno stile 'orgoglio materno', nel quale si disegnavano la maternità e la gravidanza come periodi poetici, magici, pieni di momenti indimenticabili e unici da condividere con il proprio partner. 
Premettendo che i momenti delle mia vita nei quali sono stata più felice sono stati quelli nei quali i miei bambini mi sono stati messi per la prima volta tra le braccia, e che ho allattato entrambi per un periodo talmente lungo da vergognarmi pure a confessarlo, ho deciso di levare un po' di fiori e nuvolette rosa dalla parola 'pancione', per inserire qualche termine realista, o meglio, verista, tipo perdite vaginali, cistite, ragadi ai capezzoli e caviglie gonfie.
La gravidanza la possiamo dividere in 5 fasi letterarie: la ricerca, l'entusiasmo della prima settimana, le vomitate epiche, l'ingombro e l'attesa nervosa.


La ricerca

Tu ed io decidiamo di fare un figlio. A volte capita, non è il nostro caso. Noi dobbiamo deciderlo perché siamo persone consapevoli che sanno come evitare una gravidanza, per tutti gli altri c'è il metodo Oh Gino, quello che fa rimanere incinta anche quando ci si bacia e basta.
La ricerca è il periodo più divertente, se non ci sono problemi. Altrimenti può diventare un incubo. Facciamolo così, alla tal ora, non oggi no, ovulo domani, controlliamo la temperatura, eh ma se insisti poi mi passa la voglia, ma avevi detto che la mattina alle sei funziona meglio, sarà che c'hai gli spermatozoi incapaci, incapace sarai tu, smetti di venire a letto con i bigodini, ecc.
I ritardi del ciclo sono vissuti con estrema emozione, ma a volte, il bastardo, ritarda apposta perché siamo in attesa del ritardo. Paradossale ma vero. Quindi ci illude. E noi lo detestiamo, arriviamo a dire cose del tipo guarda, faccio sto figlio e poi me lo tolgo st'utero del cavolo!

L'entusiasmo della prima settimana

Ci siamo: siamo incinti. E' devastante. In quella settimana accade di tutto, ne esci come Massimo Decimo Meridio dopo una giornata di arena. Siccome la bocca chiusa i tuoi genitori non riescono a tenerla (diventano nonni, non sanno come suicidarsi e scelgono l'invasione dei parenti), dopo due ore da quando si ritirano le analisi, tutti, compreso il bis cugino che sta a Seattle e che non vedi da 23 anni, sanno che sei incinta. Arriva di tutto: telefonate, scarpette di lana che poi ti serviranno come pezza da spolvero, portachiavi a forma di biberon, libri sui nomi, il diario della puerpera, la camicia da notte da parto, persino un libro di astronomia di Paolo Fox. Sei circondata dall'entusiasmo di massa. Lo stesso che ti renderà la vita impossibile nei mesi successivi oooooooooh ma che bel pancione a punta da maschiooooo!!!! ooooooooh ma che bel pancione tondo da femminaaaaaa!!! ma quanto manca??? ancora due mesi?? ancora???Ma vavangulo.


Le vomitate epiche

Le principali caratteristiche delle prime 12/15 settimane sono:
- sete paurosa in qualsiasi condizione, anche mentre bevi litri di acqua
- sonno mortale, ti addormenti subito dopo cena, che neanche a sei anni
- calo della libido, vuoi solo mettere le pantofole e guardare i telefilm sul divano (senza sapere che il calo strategico della libido si vendicherà quando sembrerai una balena e vorrai fare l'amore 24 ore su 24, possibilmente senza pause zabaione)
- fiuto da segugio, senti gli odori amplificati, cucinare e fare la spesa sono diventate imprese stoiche
- l'odio per il caffè anche se sei una caffeinomane da sempre
- nausea invalidante
L'ultima caratteristica è indimenticabile. Puoi anche scordarti la sete, ma la nausea nessuna se l'è mai scordata. Impari a odiarla e odiarti; in ufficio quando sbianchi e dici 'dovrei andare in bagno' noti gli sguardi compassionevoli delle tue colleghe che invece annusano profumi e bevono litrate di caffè e dopo c'hanno pure fame di pizza ai würstel. Tu, rispetto a loro, sei invalida, e già i jeans non si abbottonano più...arriva la depressione, ma dura poco, un mesetto.

L'ingombro

Varia da donna a donna. Io ho cominciato a sentirmi ingombrante al quinto mese, quando nonostante i miei sforzi, ho dovuto ammettere che i jeans di quando ero una sgallettata senza panza, non me li potevo più mettere. Ed ecco che il pancino piccolo dei primi mesi, nella tua mente da anoressica inconsapevole, diventa un pallone impresentabile. Sai che sarà sempre peggio, ma quasi quasi preferisci essere una mongolfiera vistosamente incinta che una che non si sa bene se ha messo su solo un po' di peso o aspetta un bebè. I momenti felici di te e lui che andate a fare l'ecografia (guai se non viene, sareste capace di scuoiarlo vivo e sputtanarlo davanti agli amici dicendo - sto stronzo mica è venuto all'ultima eco, c'aveva da fa' i cazzi suoi- fregandovene se aveva una riunione vitale in ufficio, e se da quella dipendeva tutta la sua carriera lavorativa: lui non è venuto ad una delle 27 ecografie, punto) sono intervallati dalle levatacce a stomaco vuoto (e stare a stomaco vuoto quando si è al sesto o ottavo mese, è durissima) per i prelievi del sangue.
La pancia cresce e cresce tutto: l'appetito, la disistima, il rancore verso chi non ti asseconda, la circonferenza delle caviglie, l'ansia, e la voglia di sesso. Ma non è una voglia normale, è patologica, rasenta la follia, cominci ad essere solidale a tipi come Michael Douglas o Emilio Fede, vorresti essere ricoverata in una clinica per sessuomani: non ce la fai più.
Ovviamente, siccome la faccenda è sempre bastarda, nei periodi un cui sembri obesa e invalida, ti capitano le occasioni mondane più belle della tua vita; matrimoni schiccosissimi, serate, inviti in discoteca, ai concerti rock, viaggi meravigliosi ai quali dovrai rinunciare.
Provi a fare la disinvolta, a uscire con le magliettine aderenti e i pantaloni calati sui fianchi, ma ti senti irrispettosa nei confronti del tuo bambino e della tua condizione. Almeno, a me è successo così, purtroppo.


L'attesa nervosa

Sono gli ultimi giorni, quelli della valigia pronta e della cameretta sistemata a puntino. Hai passato 39 settimane a immaginare, a decodificare ecografie, a fare calcoli, a sognare piedini e manine, tra corsi di respirazione e di controllo del perineo. A proposito del controllo del perineo, aprirei una parentesi. Durante il corso di preparazione al parto mi è stato detto che gli esercizi del perineo vanno fatti tutti i giorni, mentre si legge, si scrive, si potano i fiori, si parla...io non ci sono mai riuscita. Diciamolo: o si contrae il perineo o si parla, poi si finisce per far casino e scambi la bocca con il perineo e viceversa.
L'attesa è nervosa, inutile nasconderlo. Sia per noi, che per il nostro uomo, che durante queste settimane ha anche un po' rotto le palle a più riprese. Se non c'era ci faceva adombrare perché la gravidanza si vive in coppia, se c'era troppo era invadente perché la gravidanza è una cosa sopratutto della donna. Insomma, mai che sia presente in modo corretto, giusto, secondo i nostri desideri da squilibrata ormonale. Eppoi l'abbiamo devastato di domande sul parto. Da una parte ci fa piacere che partecipi e assista alla nascita del nostro bambino, dall'altra ci preoccupiamo. Sverrai? Ti farà impressione la placenta? E se me la vedi dilatata poi ti passa la voglia? E a proposito di questo, e se poi mi cambia? E se te la ricordi come un'orchidea e invece dopo il parto ti sembra un garofano secco?


Il parto dura poco, è il periodo più breve di tutta la faccenda. Si soffre tantissimo, ma poi passa. E subentra uno stato di grazia che non si riesce a descrivere. Il fisico si rigenera, la mente si apre, l'amore lievita come la pasta del pane. Ti vengono i capelli lucidi, le labbra turgide, due tette mostruose e la cameretta è immediatamente vissuta da un pargolo morbido e profumato che piange, dorme e ti succhia la vita. Tu per lui hai tutto il nettare del mondo, forse dell'universo, e solo in quel momento capisci, finalmente, che sei nata per fare la mamma.




giovedì 14 novembre 2013

Il mio post(o) sulla Norvegia



Adesso che si avvicina l'inverno e che le giornate di luce cominciano in ritardo rispetto agli altri Paesi da me frequentati, la Norvegia si prepara ad entrare nel lungo tunnel buio che tanto temevo quando ho deciso di stabilirmi qui. Vivo tutto con estrema curiosità e anche un po' di agitazione, come prima di un viaggio o di un esame. Non so come reagiranno il mio corpo, la mia mente ed il mio bioritmo da cittadina mittleuropea con velleità mediterranee.
Ero stata qui prima di adesso, ma per periodi limitati, e il pensiero fisso di rientrare in Italia o in Inghilterra, mi consentiva di vivere tutto come un gioco, una specie di mosca cieca dilatata nello spazio e nel tempo. Dopo, però, la benda sugli occhi volava via, e il debole sole annebbiato della conca fiorentina, o il blu di Londra (!) mi riportavano all'assurdità della vita, come un risveglio da un cauchemar mélièsiano.
Credo di essere un po' un cane da fiuto, un segugio che individua i luoghi o i fenomeni atmosferici dagli odori. Così all'aeroporto di Olbia, anche cieca e sorda avrei riconosciuto la Sardegna, tanto da dire alla mia vicina di viaggio "Siamo in Sardegna, c'è l'odore".
Il profumo di Norvegia, è, a differenza del suo platonico paesaggio, estremamente sensuale. Muschio, prima di tutto, anche nelle cittadine. Odori di cera, di candele appena spente, ovunque nelle stradine di Stavanger e dentro le case degli amici; negli uffici pubblici odore di libri nuovi, di disinfettante alla menta; nei locali spezie, zenzero, cannella, timo, ginepro e caramello bruciato. Appena fuori dalla città l'odore del mare nordico (diverso dal mediterraneo), di abete, di legno fresco appena intagliato, lo stesso che trovi nei depositi del mobili dell'Ikea, tanto che l'ultima volta che sono andata a correre con un mio collega gli ho detto "it smells Ikea" e lui mi ha risposto "in Tuscany it smells Chianti", la differenza tra una scaffalatura ed un vino.
L'alba arriva tardissimo, verso le otto. Lo spettacolo, nelle giornate serene è emozionante. L'orizzonte soavemente rotto dai fiordi, dal grigio-blu e dal verde delle conifere, viene illuminato da sfumature rosse e rosate, raggi rossi che riflettono stranamente l'oro delle acque e il cobalto delle zone gelate.
Il sole rimane sempre molto basso, come intimidito dalla maestosità della natura che sta guardando. Una specie di spettatore sistemato in platea, o una signora affacciata al davanzale di una finestra. Per questo risulta molto fastidioso, è sempre ad altezza sguardo, sempre presente, quasi invadente, inopportuno.
Nelle giornate di pioggia cambiano i colori, si desaturano fino ad arrivare ad un bianco e nero neorealista. Cambiano anche gli odori, e cominciano a salire dalle banchine lungo i fiordi, le esalazioni di pesce. C'è un piccolo locale appena fuori da Stavanger, che tiene i tavoli all'aperto sulla banchina anche mente piove o nevica, parlando con il proprietario mi ha detto che la cosa più bella da fare durante una giornata uggiosa, è sedersi su una delle sue panchine in legno e bere un tè caldo con il burro e il rum (va beh, sorvoliamo sulla qualità della bevanda) mentre si contempla il fiordo. L'ho fatto, e mi è sembrato buono anche il tè corretto.
L'odore dell'alcol, associato ai fine settimana, alle serata passate a ridere e a precipitare in una dimensione spazio temporale personale e distaccata dal resto del mondo.
Il profumo dell'alcol inizia con il vorspiele, cioè ci si incontra a casa di qualcuno prima di uscire e si inizia a bere, poi si esce e si continua a bere facendo il tour dei locali pieni di gente che ha già iniziato a bere a casa di qualcun altro. Quando si è sufficientemente cotti da cantare per strada senza vergogna alcuna o da fare figli con chiunque foss'anche una renna, allora vuol dire che è giunta l'ora del nachspiele, che è il colpo di grazia. Il nachspiele può portare un italiano medio a tre soluzioni: o dorme, o vomita o trova il coraggio per suicidarsi. Per noi (ci metto anche i noi francesi) bere è il mezzo, per loro il fine ultimo.
Per me bere, invece, è ubriacarmi di cose così:
https://soundcloud.com/amarantemusic/breathe-in


Secondo Glenn Gloud, uno degli artisti più importanti del 900, sugli orizzonti gelidi non si hanno foschie, vapori, miraggi e seduzioni di sorta: tutto resta terso e puro, in una dimensione di assoluta trasparenza. E' l'ambiente ideale per formulare pensieri, per innamorarsi, per approcciare la lucidità e farla propria. I grandi silenzi del Nord rendono importante la propria essenza, capisco allora John Grant che ha scelto l'Islanda, e che non fa altro che scattare fotografie e pubblicarle su Instagram, come a volersi impossessare del proprio io e al tempo stesso condividerlo con l'universo intero, espandendolo all'infinito.
Mi sto innamorando.


Il pensiero della musica nascerà e si svilupperà nella chiarezza e nella trasparenza: si dipanerà come un armonioso gioco di linee e non attraverso grovigli e agglomerati.
Glenn Gloud

"Di qui la preferenza per una concezione lineare e contrappuntistica, di qui la congenialità assoluta per J. S. Bach, di qui la diffidenza, quasi la repulsione, per quei tipi di scrittura che mirano all'agglomeraggio, al fondu, agli aloni, alle iridi, alle pedalizzazioni e di qui anche la diffidenza nei confronti della grande forma-sonata, dove il discorso musicale viene drammatizzato, con una sorta di iper evidenza teatrale attraverso l'opposizione dei temi."
Enzo Restagno sulla filosofia di Glenn Gloud

Il pensiero di Restagno, quindi la filosofia di Gloud, è la mia idea di Nord.
E di vita.


martedì 5 novembre 2013

Le cose e le case, i Mon Cheri ed un amico perso troppo presto



Una volta conoscevo un artista circense. Faceva il mimo di mestiere, aveva studiato alla scuola del grandissimo Marcel Marceau. Lui mimava vite non sue e luoghi nei quali vivere. Poi la malattia l'ha devastato dentro e fuori, ed è morto a 31 anni portando con sé le stesse vite che mimava e lasciando a me una roulotte nella quale teneva di tutto, compresi i libri mai letti che gli avevo regalato. Era un amico, per me, ed io ero un'amica per lui. La profondità dei suoi occhi neri di origine tunisina, mi aveva insegnato che siamo come le lumache, procediamo lentamente trascinando dietro la nostra casa, i nostri oggetti, i nostri abiti per ogni occasione. E nello spostarci lasciamo dietro di noi una scia luccicante, che asciugandosi, però, non lascia traccia.
L'idea di volere assolutamente lasciare qualche segno, ci spinge a figliare, a mettere firme ovunque, a creare un qualcosa che porti il nostro cognome con onore e gloria. Per quando non ci saremo più, certo, ma anche per essere qualcosa di evidente, qualcuno di rilevante. Per occupare il nostro posto nell'orchestra, e suonare il nostro strumento accordato insieme agli altri, magari sognare di essere quel primo violino che dà il La prima del concerto e che si distingue dall'ensemble degli altri orchestrali, con voce solista.
Il mio amico Pierre Taleb, diceva sempre una cosa che a molti risulta ovvia, ma che adoravo dicesse: gli oggetti non valgono per il loro valore intrinseco, ma per ciò che sono e che rappresentano. Per cui se possiedi un anello con diamanti che non ti ricorda niente, vendilo, e comprati un viaggio da fare da solo o con qualcuno. O compra un divano letto per l'ospite che non hai mai potuto invitare a casa tua.

Quando entro nella mia casa sarda, come è successo questo fine settimana prolungato, ritrovo le tracce. Non sono solo tracce estive, sono anche oggetti invernali portati durante l'anno, ricordi di capodanni esposti al maestrale, tappi di spumante con sopra incisa la data - vecchio vizio di mio padre -. Date di compleanni, anniversari, accaduti cinque, sei, otto, persino 28 anni fa. Asciugamani con le iniziali ricamate sopra, ma di chi? Di qualche ospite che le ha lasciate, di una zia, un cugino, forse di un'amica di mio fratello. Oppure rubate negli alberghi o nei traghetti.
Angoli di casa dove si sono consumate tresche estive; posti in giardino cambiati dalla natura, ma che portano lo stesso odore di quella volta "che ti ricordi quando ci siamo mangiati la pasta con le acciughe e tu eri ubriaca".
Anche aprire l'armadietto del bagno è un viaggio nei ricordi. Le tracce anno dopo anno sono rimaste là, ingabbiate. Il Cicatrene comprato da me nel 2009 quando mi sono raschiata il braccio sugli scogli; la Tachipirina sempre nuova da quando abbiamo bambini; un solvente per smalto di marca francese, quello forse era di mia madre quando venne nel 2001; una bomboletta che si chiama Silent per evitare di russare (c'è un'indagine in corso, ancora non ho capito a chi è appartenuta); l'aspirina americana di mio fratello, la confezione da 100 pasticche; lime per unghie e pinzette dimenticate là da tutti, una vecchissima cipria, forse di mia nonna.
La libreria che mio padre tenta faticosamente di mantenere coerente, quindi solo libri di storia sarda e del mediterraneo, viene disordinata dai dvd dei cartoni animati, da romanzetti gialli estivi comprati a 5 euri e abbandonati là in attesa che qualcuno li veda, li prenda e se li porti sul comodino o in spiaggia, per poi non leggerli, ovviamente. Da scatole di pastelli colorati e di acquerelli che servono a mio fratello per dipingere e ai bambini per fare i loro capolavori. Le carte nautiche, altro orgoglio paterno, così perfettamente incorniciate ed appese ai muri del soggiorno, devastate dai post-it artigianali dei bambini, dai fogli con gli appunti di una partita a carte, vinta da N.L.  e giocata contro IO, Giorgia B. e TU. Chi siano non lo so, e come con le asciugamani cifrate la mia mente viaggia tra i nomi e i cognomi degli ospiti, degli amici, degli amici degli amici. E ripercorro voci, idee, volti, di persone che quasi dimenticavo, ma che hanno trascorso settimane a casa nostra, giorni, notti, pranzi e cene di 6 ore.

Poi ci sono i capisaldi:
- La felpa della morta 
Da quando la casa appartiene a me e a mio fratello, non disdegniamo ogni tanto di affittarla, cosa che mio padre detesta a tal punto da definirci "figli attaccati ai soldi ebbasta". Una volta l'abbiamo affittata ad una coppia di Bergamo. Lei aveva lasciato una felpa nera, che non ha voluto indietro. Le avevo parlato al telefono per chiederle se voleva che gliela spedissi, e ricordo benissimo che mi aveva detto "tienila tu, è di marca sai, l'ho comprata da Sport Center una volta che tirava un maestralaccio terribile, ma non l'ho mai messa e l'ho lasciata là apposta". L'anno dopo siamo venuti a sapere che la poverina era morta, ma la sua felpa nera comprata in un giorno ventoso, è sempre nel nostro armadio. Non riesco a buttarla via, voglio che rimanga a casa nostra. Mio fratello mi deride da cinque anni chiedendomi se ho buttato la felpa della morta. Felpa che tra l'altro è tornata utilissima in diverse occasioni, quando ad esempio qualche signora o signorina ignara del clima delle serate maddalenine di luglio, viene a cena da noi tutta scollacciata e poi muore di freddo come un merluzzo della Findus.

- La maschera di nonno
Mio nonno David, israeliano fino al midollo, era un grandissimo pescatore di frodo. Nel senso che una ventina di anni fa praticava la pesca subacquea con il fucile nelle smeraldine acque dell'arcipelago maddalenino. Lo detestavamo e glielo dicevamo tutti, compresa sua figlia. Aveva una maschera gialla, abbastanza ridicola che io definivo "da sommozzatore" per imponenza e forma. Nonno non è più venuto perché offeso dal nostro atteggiamento che definiva "ridicolmente e esageratamente animalista", e la maschera è rimasta nell'armadio a muro dove teniamo le cose per il mare. Quando qualcuno perde la maschera o ne è sprovvisto, si prende quella di nonno aggiungendo "tanto non mi vede nessuno, me la metto al largo".

- Il wok e la pescieraIl wok che teniamo in cucina credo sia stato uno dei primi apparsi in occidente. Pesa una tonnellata perché di ghisa, è enorme, e mio padre lo portò da Ginevra in aereo, quando ancora si poteva viaggiare senza denudarsi e/o giustificarsi. Questo wok ha visto di tutto, dalla paella reinventata, al cuscus rigorosamente israeliano, fino alla pasta con i ricci. Tace in cucina sopra il mobile, avvolto in una busta azzurrina. Non entra in nessun scaffale, e suscita sempre la solita domanda negli avventori "ma là, sopra lo scaffale, cosa c'è?", la risposta sarcastica di mio fratello è sempre "un souvenir orientale in ghisa per cucinare cose che si possono fare anche in una padella antiaderente".
La pesciera, invece, ha tutta un'altra storia ed altri connotati.
E' un tegamone in acciaio lungo e stretto, con il coperchio e un altro tegamone forato al suo interno per scolare il pescione una volta lessato. Credo sia la dimensione più grossa di pesciera in commercio, e venne regalata a mio fratello quando si sposò. Sempre sarcasticamente, dice che ha divorziato per potersi disfare soprattutto della pesciera. Ricordo ancora sto pacco enorme avvolto in una carta dorata damascata, e ricordo benissimo il luccichìo negli occhi di mia cognata quando si trovò davanti al regalo, chissà cosa sperava ci fosse dentro. Ma indelebile è il ricordo della delusione quando scoprì la pesciera. "Dai, ti compri una ricciola da venti chili e inviti gggente", le ho detto per tirarle su il morale "No, vi serve al mare" fu la sua secca risposta. E infatti ci serve tantissimo, tanto da trovare posto nell'armadio delle coperte. E' messa in modo che tutte le volte che si prende una coperta, lei sporge strisciando sul legno dell'armadio e a volte casca producendo un frastuono che perfora i timpani.
Questa estate, verso le tre di notte, io e Steve abbiamo sentito il frastuono di cui sopra, e mio marito "tranquilla, è solo qualcuno che sente freddo ma la pesciera non è d'accordo".

- L'olivo di Natale
Diversi Natali fa, abbiamo scelto di passare le feste alla Maddalena. Tutti. Famiglie e famiglie allargate comprese. Durante i preparativi abbiamo stabilito (ho deciso io, lo ammetto) che il tradizionale abete addobbato, stonava un po' con l'ambiente, così come una cozza in Val D'Aosta. Mio fratello è stato obbligato ad andare al vivaio di Arzachena per comprare un olivo in vaso, che ha trovato posto al centro della sala. I bambini si sono divertiti ad addobbarlo il 24 dicembre, dopo che li avevamo costretti a produrre con l'argilla e le tempere addobbi a forma di "qualcosa di marino e al tempo stesso natalizio" come ordinò mio padre. Mio nipote fece uno squalo con le gambe e i denti insanguinati. Papà acconsentì controvoglia ad appendere quell'orrido addobbo insieme alle stelline marine colorate e ai pesciolini con i cappelli di Babbo Natale "il Natale è una festa importantissima per i cristiani, non si deride" ammonì così Matthieu, il quale sottolineò il fatto che l'uomo squalo è ebreo come lui, e scusandosi disse che non aveva capito. Fu una risposta così bella che mio padre decise di premiare mio nipote mettendo l'addobbo orrorifico in cima all'albero, ben evidente.
Dopo le feste l'olivo fu liberato dagli addobbi, Teresa, la signora che si occupa della casa quando noi non ci siamo, lasciò lo squalo-uomo killer in cima all'albero perché troppo in alto. La pianta fu portata fuori in giardino con il suo addobbo insanguinato. La figura in argilla è ancora là, un po' scolorita, la tempera rossa che simula il sangue ha assunto il colore del mandarino, ma il vento non ha sradicato l'addobbo di Matthieu. Mio nipote oggi ha 10 anni et utte le volte che passa dall'olivo mi dice che è stato il più bel Natale di tutta la sua vita, l'unico nel quale ha potuto essere veramente creativo.

- Il telo di Braccio Di Ferro
I teli per il mare sono articoli in continua evoluzione, cambiano con gli anni, diminuiscono, aumentano. Solo uno è sempre là: il mio asciugamano di Braccio Di Ferro. Mio fratello a 16 anni era già in fissa con New York, passò tre mesi in quella città. Al suo ritorno mi portò, tra le altre cose, l'asciugamano di Popeye comprato nonsodove per pochi dollari. "gli americani hanno cotone e spugne ottimi!" disse mia nonna con il suo asciugamano da 5$ fiorato in mano. Forse lei pensava alle piantagioni, ai negrieri, all'epopea degli stati del caffè e del tabacco. Io penso al gesto affettuoso di un fratello per la sua sorellina di dieci anni, penso al fatto che la copertina di Linus è comunque un qualcosa di cui abbiamo bisogno un po' tutti. Il mio asciugamano di Popeye non lo presto a nessuno, e si trova nell'unica casa dove so che ogni tanto torno. L'unica roulotte che conosco da quando sono nata.


Post dedicato al mio amico Pierre Taleb, che mi manca da due anni. Gli ultimi tempi comunicavo con lui solo tramite Skype e email, perché mi trovavo in Brasile in quel periodo. Lui aveva la passione per i Mon Cheri, i cioccolatini della Ferrero che io gli portavo tutte le volte che andavo in Francia dall'Italia. Passione condivisa con la sottoscritta, per altro. Mi chiese di scrivergli perché mi piacessero ed io gli mandai un'email che gli piacque tantissimo, talmente tanto da farmi giurare di pubblicarla sul blog in modo che chiunque la potesse leggere. Io non la pubblicai, era una cosa nostra e ne ero gelosa. Ma credo che avesse ragione, in fondo è solo un cioccolatino, quindi traduco e l'appiccico qui sotto.

...noi (io e te, non è un noi globale) preferiamo i Mon Cheri, ma la nostra non è una preferenza dettata dalla pancia e basta, c'è tutta una filosofia dietro e una gamma di sensazioni erotiche da far impallidire Anaïs Nin.
Cominciamo con l'involucro. Il Mon Cheri è avvolto da una doppio strato di carta. Il primo è trasparente, lucido, e lascia intravedere ciò che c'è sotto. La carta stagnola rosa sotto il primo strato, è quasi vellutata, morbida come la pelle appena idratata, ed è di un rosa antico, ottocentesco. Mentre mangi il cioccolatino, non puoi fare a meno di stirarla con le dita, aprirla, accarezzarla fino a levarle tutte le pieghe, fino a renderla un quadratino morbido come un petalo di rosa, come le labbra di una fanciulla vergine in un quadro preraffaellita. Penso sempre che schiudere, aprire un Mon Cheri, sia come baciare, entrare a contatto con qualcosa di ignoto che puoi solo immaginare ma mai sapere con certezza come sarà.
Una volta scartato, il cioccolatino si presenta a noi scuro, lucidissimo, a forma di scrigno con la parte superiore rigata, in modo che possa essere preso senza che scivoli, e qui proporrei un applauso all'ingegnere progettista. Non è come, ad esempio, il Lindor, che per quanto buono e caruccio, ha un aspetto poco rassicurante, hai sempre paura ti sfugga di mano come una pallina da ping pong. Le dimensioni del Mon Cheri sono perfette per una bocca femminile, e per alcune bocche piccole maschili (non ridere, ti vedo che stai ridendo, sai). Entra con delicatezza, ma al tempo stesso con fermezza e determinazione, e lo si adagia sulla lingua perché si sa che dentro è liquido. Mentre con gli altri cioccolatini, come ad esempio i gianduiotti, ti puoi permettere di addentarli e persino di vederne il contenuto, il Mon Cheri dentro non si può vedere, ma solo sentire. E' un cioccolatino che contiene dei segreti, e solamente i privi di poesia lo rompono sul tovagliolo per vedere cosa c'è dentro, per analizzarlo facendogli subire una vera e propria violenza. Una volta posato sulla lingua, hai due scelte: o lo sciogli in bocca pianissimo fino a romperlo, o lo mordi. Io scelgo sempre di morderlo perché adoro tutto ciò che è croccante, e lui lo è, orgogliosamente. Quando lo rompi arriva l'apice del piacere, il liquido non sai neanche cosa sia, forse rum, ma poco importa, quel che conta e che ti scalda il cuore, pervade la mente, il corpo, come quando si è innamorati. Tra l'elisir e il cioccolato fondente, avverti l'acido dolce della ciliegia, che è il nucleo, il fulcro attorno al quale ruota la filosofia del Mon Cheri. La ciliegia non è croccante quanto l'involucro, né liquida quanto il liquore, è una via di mezzo, ed è sferica, a differenza dello scrigno che la contiene. E' frutta, è organica, una volta stava sull'albero; è maturata al sole, ha vissuto per essere racchiusa dentro ad un segreto. E' proibita, la poi raggiungere solo se scegli di provare anche le altre sensazioni che il Mon Cheri è disposto a darti. Sta a te scegliere.

ciao Pierre

lunedì 28 ottobre 2013

Nicole intervista Leblanc in aereo



N - Buonasera.
L - Buonasera.
N - Che mani fredde e sudaticce, paura di volare? L'avevo anche io, ho dovuto dare terapia per superarla, in parte.
L - Sì ho un po' paura, ma non apriamo un fascicolo in merito, procediamo con l'intervista.
N - D'accordo, come vuole. Mi sono scritta le domande, la prima: è consapevole che domani mattina le toccherà prendere un altro aereo?
L - Ma che domanda è?
N - Niente, scherzavo. Dunque, le hanno mai chiesto di scrivere un libro?
L - Sì.
N - Oh, e quale editore?
L - Editore? Nessun editore, me l'hanno chiesto gli amici.
N - Va beh, ma questo non è chiedere di scrivere un libro, è più un complimento.
L - Macché, i miei amici non mi fanno complimenti, sono obiettivi, pensano che abbia qualcosa da raccontare e pensano bene.
N - E lei ha dato loro retta?
L - Certo.
N - E di cosa parla questo libro?
L - Dei miei due anni in Arizona.
N - E...?
L - E..cosa? Non le sembra abbastanza? Due anni consecutivi in un ranch insieme ai cowboy, i fucili e le vacche e lei mi fa intendere che non ci sia niente da raccontare?
N - Quindi è autobiografico?
L - Al novanta per cento.
N - E in quel dieci per cento cosa si è inventata?
L - Una storia d'amore.
N - Benissimo, fa vendere copie.
L - Il mio scopo non è quello di vendere copie, sa'.
N - E qual è?
L - Nessuno scopo, solo voglia di coccolare l'ego.
N - Care queste coccole.
L - Ancora non l'ho pubblicato, è in un file dentro al mio vecchio Vaio, che tra l'altro non si accende neanche più. Dovrei prendere il disco rigido, recuperare i dati, fare tutta una serie di cose che non ho voglia né tempo di fare. Il mio ego dovrà aspettare.
N - Anche io ho scritto qualcosa...
L - Scusi sa, biondina, ma qui sono io che parlo della mia vita e lei che mi fa le domande.
N - Ha ragione bionda, però questa sua ultima risposta mi ha ricordato del file che tengo nei documenti, quello che si intitola EroS.
L - E che titolo sarebbe?
N - E' un gioco, eros, ero Saffie. Capito?
L - Lei ha scritto un libro che si intitola EroS?
N - Non è un libro, sono 10 racconti erotici che ho scritto quando ero incinta.
L - Santo Cetriolo...
N - Che c'è?
L - Ma una quando è incinta non pensa a scrivere racconti erotici!
N - Beh, ero all'ottavo mese, non lavoravo, dovevo stare ferma a letto a causa di contrazioni premature e quindi ho scritto qualcosa che mi divertiva.
L - Con quel pancione?
N - Senta, adesso non mi farà tutta la scandalizzata che le si vede pure l'autoreggente, e tiri giù la gonna, perdinci!
L - Che me ne frega, siamo tra donne, voglio stare comoda! Devo per forza accavallare le gambe, che tra l'altro non c'è neanche spazio su questo velivolo infernale?
N - Continuiamo con le domande: cosa ne pensa del datagate?
L - Beh penso che... scusi, sa, ma racconti erotici, come?
N - Ahahah!
L - Non riesco a crederci. Anche io ho avuto una gravidanza, anzi due. Eppure l'unico racconto che ho scritto è stato in occasione di quella volta dell'insalata di riso.
N - Anche io due gravidanze! Dunque. mi racconti di quella volta dell'insalata di riso(?).
L - Semplice: c'era una festa a casa mia ed io avevo fatto anche l'insalata di riso. Mio fratello l'assaggia e mi dice storcendo la bocca "sa di frigo" (cosa abbia voluto dire non so, ma ho intuito non fosse proprio un complimento). Io accuso il colpo chiudendomi in un mutismo impenetrabile. Quando vanno tutti via, io e mio marito andiamo a letto, ma io continuo a pensare all'insalata di riso che sa di frigo e non riesco a dormire. Scendo giù in cucina verso le quattro di notte, assaggio l'avanzo di riso rimasto e decido di fare la maionese.
N - Perché decide di fare la maionese?
L - Per migliorare l'insalata di riso avanzata, ma che domande! Le sue gravidanze sono sexy e le mie pazze, e allora? Dunque, metto tutto nel mixer, uovo, olio, sale, limone, come ho sempre fatto. Frullo, ma la maionese impazzisce.
N - Un dramma vero.
L - Già. Allora decido di farla a mano, prendo di nuovo tutti gli ingredienti e comincio a sbatterli forte con la frusta. Seduta per terra, con la ciotola tra le gambe.
N - Ahi, e qui potrei continuare io trasformando il racconto di cucina domestica ossessivo compulsiva, in qualcosa di più interessante.
L - E mi lasci finire, biondina inutile! Insomma, la maionese non mi vuole proprio venire, tutti gli ingredienti si decompongono sotto il mio sguardo allarmato, mentre le lacrime cominciano a rigarmi le guance. Ma non singhiozzo, piango in silenzio.
N - Beh, finito così?
L - No, entra mio marito in cucina.
N - E..?
L - E basta, mi sfogo con lui, urlo, dico anche le parolacce.
N - Uh - uh.
L - Gli dico urlandogli in faccia cose tipo è colpa tua se la mia insalata di riso sa di frigo e se la mia maionese impazzisce!
N - E lui che fa??
L - Niente, mio marito è inglese con il fair play.
N - Immagino che sia l'unico uomo disponibile a sopportare una svalvolata seduta per terra con la ciotola di maionese impazzita tra le cosce!
L - Lei non immagini i fatti miei, per piacere. Immagino che lei, invece, coltivava rose, ricamava scarpette e scriveva racconti erotici durante la sua gravidanza, ma sappia che io sono una creativa dell'umore, con me non ci si annoia. Saicheppalle invece, sopportare una che scrive zozzerie su un pc con il sorriso da Peppa Pig stampato in faccia.
N - Le mie non erano e non sono zozzerie! Ma come si permette? Scrivere di eros è un'arte complessa, bisogna stare attenti ad ogni parola, ad ogni virgola. Saffie ero io, in quei racconti. C'è tutto il mio cuore là dentro.
L - Che fa, piange?
N - No, ho la congiuntivite.
L - Istantanea.
N - Immediata.
L - La concludiamo qui quest'intervista?
N - Tra dieci minuti atterriamo, sì, chiudiamola qui. La proseguiamo domani sull'altro volo?
L - D'accordo, ma faccia domande più interessanti.
N - Tipo?
L - Che ne so, tipo "Cosa ne pensa dell'evento ne La Logica del Senso di Gilles Deleuze?"
N - Anche lei appassionata di Deleuze?
L - Sì tanto, anche se sa un po' di frigo.


L'attore rappresenta, ma ciò che egli rappresenta è sempre ancora futuro e già passato, mentre la sua rappresentazione è impassibile e si divide, si sdoppia, senza rompersi, senza agire, né patire. Il paradosso del commediante allora si fonda sull'istante in cui deve contemporaneamente anticipare, ritardare, sperare e ricordare.

La Logica del Senso - Gilles Deleuze

lunedì 21 ottobre 2013

Ken e Action Man, dialogo e depravazione a fiumi (Two Mothers)



Two Mothers.
Ho deciso di vedere solo filmacci, embè?
Di cosa parla il film scandalo dell'anno? Di due amiche ultraquarantenni gnocchissime, madri entrambe di due diciottenni gnocchissimi, che decidono di lasciarsi coinvolgere sentimentalmente e sessualmente ognuna dal figlio dell'altra, che peraltro conoscono fin dai primi vagiti. Diciamo che si passa direttamente dal vagito alla vagina, tanto per fare un simpaticissimo e raffinato gioco di parole.
Una è interpretata da Naomi Watts, l'altra da una sensualissima Robin Wright. Il film è girato in Australia: le due gnocche vivono in case stupende sull'oceano, e i rispettivi figli, Ken e Action man, cavalcano le verdi onde con le loro tavole da surf. Non si capisce bene come il quartetto riesca a mantenere un tale tenore di vita, dato che tutto il giorno non fanno altro che bere drink e spappardellarsi sulla spiaggia, però ogni tanto si intravede la Wright in una galleria d'arte, lasciando intuire che lavora, ma fa qualcosa che non la fa tanto sudare né soffrire di insonnia. Forse un po' di precariato avrebbe movimentato la faccenda: avrebbero dovuto girarlo in provincia di Bari, il mare c'è anche là.
Ci si aspettava un quasi porno, da come era stato descritto dalla campagna pubblicitaria e dall'etichetta di film-scandalo che gli era stata appiccicata sopra. Invece si vedono solo un paio di culi (uno della Wright e l'altro di Action Man, siamo tutti per le pari opportunità).
Provo a descrivere l'utilità di questo filmone, scrivendo un dialogo che di fatto non esiste nel film, ma che rende bene l'idea di cosa succeda. E' tra Action Man (AM) e Ken (K), i due figli della gnocche.

K - Sono innamorato di tua madre.
AM - Fai bene, sei un grande. Te la sei scopata sul divano?
K - Non ancora, solo sul letto. Tu la mia dove te la sei fatta?
AM - Sul letto e sulla rotonda sul mare. Guarda che ti faccio mangiare la polvere, così. Rimettiti in pari, dobbiamo essere due a due sui luoghi del sesso.
K - Pensavo alla spiaggia, poco originale ma per lo meno arriviamo a due pari.
AM - Bravo, si. Chettefrega dell'originalità.
K - Oggi dopo la surfata imbastiamo una cena a quattro, poi ognuno a casa dell'altro. Tu a casa mia con mia madre, e io a casa tua con tua madre. Poi ci scambiamo pure le figurine di Harry Potter, domattina verso le dieci.
AM - No, io domattina devo andare da mio padre che fa l'impresario, e scoparmi una ventenne per ricordare a me stesso che devo stare con una delle mia età. (Poi lui si metterà con una 18enne e le farà subito sfornare un figlio, tanto per essere sempre sull'onda del rapporto con la forbice d'età)
K - E' quello che ripete sempre anche mia madre..no, scusa, mi sono sbagliato, tua madre...no anzi no, mia madre e tua madre. Sto a fa' un casino che lèvati!
AM - Guarda che so' riconoscibili, una ha i capelli corti e l'altra lunghi, non ti puoi sbagliare.
K - Certo. Comunque io sono innamorato di tua madre, non potrei mai scoparmi le altre. Infatti alla tua festa mi prenderò la prima ventenne che vedo, foss'anche la gatta. Ah ma non ci sono gatti in questo film, solo bikini, spiagge e lenzuola.
AM - Perché siamo in un film?? Cazzo!!! Fammi fare lo sguardo più intelligente, allora!
K - Non ci riuscirai mai, sembri uno che non capisce le equazioni di primo grado.
AM - Guarda che ti mordo la coscia sott'acqua!
K - No, io la mordo a te, e le nostre madri-amanti-fidanzate, poi ci soccorrono eccitate.
AM - Ma sei scemo? Quante tavole da surf sul capo ti sei beccato? Il solito biondo surfista cretino.
K - Ha parlato Eisenstein.
AM - Chi?
K - Boh, è il primo nome difficile che m'è venuto. Ma a proposito di venire, quante volte stanotte?
AM - Pare tre, poi sono andato al frigorifero a scolarmi due litri di latte e Nesquik.
K - Mia madre ha sempre avuto delle grandi potenzialità Se vuoi arrivare a quattro, falle il solletico sotto i piedi.
AM - Ma che davero?
K - Certo, me lo raccontava mio padre prima si schiantasse in macchina.
AM - Ah già, dimenticavo la cosa della rielaborazione del lutto..va beh, sono particolari che in sto film non ci devono stare, qui si tromba.
K - E allora annamo no? Fino a che non le facciamo diventare nonne ingravidando altre due con la metà dei loro anni, poi ci separiamo e ritorniamo a ingropparcele in spiaggia.
AM - Ottimo! Le nonne sono ancora meglio.
K - Ma il senso di tutto questo?
AM - Non farti troppe domande, calati le braghe e basta, altrimenti se pensi mica ci stai a girare sta vaccata.
K - Vero. Ciao, vado a spalmarmi il grasso di foca sugli addominali!
AM - Io a sollevare con l'erezione 10 volte il castello dei playmobil ! Ciao Bello!
K - Ciao Bello!








mercoledì 2 ottobre 2013

a James Hunt piaceva la gnagnera



Rush è un film di Ron Howard. Non solo, è un film che parla di Formula Uno. C'erano tutti i presupposti per non andarlo a vedere. Poi, come spesso accade, mi lascio convincere dal parere di amici fidati che è bellobello wow vai che aspetti!! Saranno uomini che si eccitano con i rombi dei motori? No, sono anche femmine che glie piasce Pukka a dirmelo. Quindi va beh, si va, per la gioia di mio marito che non vedeva l'ora di ascoltare la Ferrari anni 70 che fa wrooooooooom. C'era l'anteprima con ospitini illustrissimi, qui a Stavanga. Facciamo parte dell'high society. I comuni mortali dovranno aspettare domani, per vedere sto gran capolavorone.
Partirei da un punto importantissimo: James Hunt. Per chi non lo sapesse (tipo me prima, adesso so, purtroppo, di chi si tratta) sto James era un inglese pilota storico rivale del ben più importante Niki Lauda (che sarebbe anche un po' parente di mia nonna da parte materna, e va beh, esticazzi, giusto?). Dunque, James Hunt (porello) era un belloccio al quale piacevano le gonnelle e le feste. Questa è la sintesi del personaggio. Uno dice evabbè, dato che si parla di lui in quasi tutto il film, ci sarà qualche approfondimento, no? Qualche dettaglio, qualche parola, qualchecosaacaso che lo fa sembrare pure un essere umano. La risposta è no. Il roscio di Happy Days delinea il suo personaggio principale - chiamiamolo pure "personaggio chiave attorno al quale ruota tutta la piccola morale da americano un po' così, come dire, inetto" - come se fosse un pupazzo. In effetti l'attore scelto per il ruolo (Chris Hemsworth) ricorda tanto un Ciccio Bello sviluppato. Ha un po' la faccia da bombolone insipido, e mi meraviglio dei commenti delle mie amiche in merito al tipo. Me le sdraierei, è il più raffinato dei commenti. Ci farei robbba, l'intermedio. Il più spinto non ve lo racconto. In effetti anche io ci fare robbba, però mentre faccio le parole crociate, mentre spiccio casa, mentre leggo l'oroscopo o mentre metto il top coat sopra lo smalto di Dior. Non me ne accorgerei, penso. Hunt è una sorta di Ken (l'amico di Barbie) e per tutto il film ho sperato che prima a poi facesse outing come in Toy Story 3, e si mettesse a sculettare dicendo a Niki Lauda: ma tu sei pazzoooo!!! Sarebbe stata una svolta che avrebbe nobilitato parecchio il film e la fama da americanino un po' così di Howard. Lo spettatore, secondo il roscio di Happy Days, è un po' grullo. Perché si capisce dalla prima scena, quando entra Ken con la sigaretta pendula e l'espressione da escobador, che è uno che glie piasce la gnagnera. Invece, siccome lo spettatore medio è scemo, bisogna ricordarglielo ogni istante che il poero James Hunt era un donnaiolo. Le scene (che potrebbero anche essere interessanti) dei motori wroooooooooooom sono intervallate da: lui che fa sesso con l'infermiera all'ospedale, lui che lo fa nel bagno dell'aereo con l'hostess, lui che tromba un po' là, un po' qua, un po' dove capita, basta si capisca che a lui piace la gnagnera. Non s'è ancora capito? E' come se io adesso scrivessi A JAMES HUNT PIACEVA LA FIc/gA!!, ad un certo punto chiamereste l'infermiera di prima, ma solo per farmi internare. Però ci sono anche momenti di approfondimento psiccologgico. Quando, ad esempio, conosce una modella (non si sa come...compare, semplicemente). Si presenta, lei ha un cappello a tesa larga che la rende misteriosa e dopo due minuti di dialogo degno di Bbiutiful, lui le chiede di sposarlo. E poi si sposano. Giuro. Accade sul serio. Nel film. Perché mi sono informata, non è andata così nella realtà. E' stata una variazione sul tema del genio di Ron Howard.
L'altro personaggio è Niki Lauda, interpretato dal validissimo Daniel Brühl, che nobilita l'intera fiction..ahem, no scusate, film. Anche qui avviene taglio di accetta per delineare il personaggio, però almeno Niki Lauda/Daniel Brühl ha una storia da raccontare un pochino più interessante. Non per merito del regista americanino un po' così, sia chiaro. Per merito della realtà, che a volte è meglio dei film.
Niki Lauda conosce la sua futura moglie in Italia, salgono in macchina insieme, si brucia il motore. Lei allora, in mezzo ad una campagna che pare nei dintorni di Siena, dice più o meno così: faccio io l'autostop, siamo in Italia, baby! Tradotto: siamo in Italia, in quella nazione a forma di stivale dove sono tutti dei morti di figa, appena vedono una femmina straniera con la gonna vedrai quanti! I due tipi che si fermano si riscattano andando addosso non a lei, ma a Niki Lauda, sono dei fanz! (l'elemento sorpresa di Ron Howard, roba forte). Lo fanno come due scimmie antropomorfe che vedono le banane. Ovviamente entrambi sono neri impeciati, coi baffi, la camicia con le maniche arrotolate, il sudore sulla fronte e l'accento partenopeo. Mi pareva campagna toscana..bah, americanino un po' così sto Howard. Saranno stati due di Posillipo che tra una pescata ammmare e due o sole mio, sono andati in vacanza a Pienza.
Come non notare la presenza di Favino che ormai è richiestissimo come cameo. Peccato che negli Stati Uniti nessuno o quasi sappia chi sia, quindi da cameo mi si trasforma in comparsa. Mi spiace perché l'ho conosciuto l'estate scorsa, è una persona ammirabile e un attore valido. Perle ai porci.
Poteva essere un minimo interessante (ma non più di tanto) approfondire il rapporto tra Lauda e Hunt, rivali sportivi. Invece anche quello è buttato un po' ai maiali, trascurato, appena accennato o tradotto in dialoghi penosissimi che farebbero cascare le balle a chiunque. Dialoghi strumentali che servono per delineare una morale stucchevole da due cent.
La scena finale (cosiddetta scena clou conclusiva) è patetica, Hunt che causalmente incontra Lauda in un hangar mentre le solite gnocche lo tirano per la giacchetta, e lui arrivooooo!!! Per riempire il vuoto spinto dei contenuti qualcosa dovevano pur fare, allora daje di colonna sonora invasiva che non molla mai.

"Che una volta la Formula uno era pericolosa che si moriva e che e le gare erano avvincenti, e io mi ci faccio il film, ecco. Prima gioco con la polistil, però, ecco." Ron Howard una mattina a caso mentre mangia il latte coi cereali.

Un film trattato da americano stupido su un inglese trattato da stupido. -
marito dopo 10 minuti di film

mercoledì 11 settembre 2013

Dialogo in aereo tra Italia, Norvegia e Xanax.



Si sa che sono una volofobica, no? Lo Xanax non serve a una cippa, mi ci vorrebbe l'anestesia totale. Ero migliorata, ma da quando ho iniziato il mio nuovo lavoro a Stavanger, sono di nuovo precipitata (aiutooo!) negli abissi della mia fobia.
In aereo, durante i voli intercontinentali nascono amicizie, amori, si scoprono parentele e spesso si riamane incinta: "tesorino mio, la mamma e quello con il trolley rosso di Casalpusterlengo, ti hanno concepito tra Milano Linate e il Benito Juárez di Città del Messico."
Nei voli brevi, invece, è l'opposto. Nessuna sinergia, nessuna empatia temporanea o "tu saresti figlia del nipote di quel Leblanc che sta in Canada...?". Solo sguardi cagnazzi di gente incazzata nera perché deve andare a lavorare fuori città, oppure chiassosi gruppetti di individui in preda alla tarantola delle ferie (sono generalmente i più rompiminkia coi loro chiacchiericci e risatine inutili sul nulla da gita delle medie), o quando va bene le famiglie con pesti al seguito che ti chiedono sempre di cambiare posto con uno di loro, generalmente col figlio adolescente che siccome è adolescente allora deve essere tritacazzi a prescindere. Poi ci sono quelli che stanno rientrando a "casa", che sono i più dignitosi. Zitti e onesti: stiamo rientrando a casa, ce l'abbiamo scritto sul labbro pendulo inferiore e sullo sguardo da cocker.
Infine, sparuti qua e là, timorosi e vergognatissimi ci siamo noi: i volofobici. Personcine per bene che devono prendere aerei per forza, ma hanno una paura nera. Darebbero qualsiasi cosa pur di farseli a piedi, di corsa, sti centinaia di migliaia di chilometri. Sognano interminabili viaggi in treno, anche in uno di quelli vecchi delle FS dove c'era scritto vietato sputare sotto ai finestrini troppo duri da tirar giù.
Il motivo dello spostamento del volofobico non è importante. Può essere qualsiasi, tanto l'atteggiamento non cambierebbe. Pupille dilatate, fiato corto, pipì anche se è stata appena fatta, sudore freddissimo sul collo, mani rigide color bluastro, schiena monolitica che neanche il colpo della strega e sorriso forzato di quelli che spesso fanno i bambini per non piangere. Ad ogni sobbalzo dell'aereo, il volofobico cerca con l'occhio da fulminato lo sguardo della hostess per vedere se riesce a scorgere un velo di preoccupazione. In genere vuole soffrire in solitudine, non desidera attaccare bottone col vicino che potrebbe distrarlo per pochi secondi dal suo male: perché il volofobico è anche parecchio masochista.
Capita di tanto in tanto, che accanto a me sieda un tipo/una tipa, con tanta voglia di parlare. Sono minuti durissimi, che sembrano non finire mai. Ieri, sull'aereo che mi ha portato in Norvegia, accanto a me c'era uno, ma a me sono sembrati dieci. Un polpo con tre teste e una trentina di tentacoli, superaccessoriato con pc, telefoni, tablet, giornali, caramelle, delle cose che mi sono sembrati libri di cartone, giacche, giacchette, due paia d'occhiali, dopobarba a profusione, cravatte (due, una l'aveva comprata in aeroporto), le Hogan, una serie di braccialetti in cuoio e acciaio che pareva n'antico romano da biga, mancavano solo la scatola di pastelli, le crostatine e i walkie-talkie. E' arrivato dopo, quando quasi tutti erano sistemati, trafelato, sbattendo i gomiti a ds e a sn, con un trolley cigolante pesantissimo e una borsa a tracolla penzolante. L'avevo visto da lontano, ed avevo pensato 'vai, ora sto coso me lo trovo vicino'. E infatti. Avevo il sedile corridoio, e lui ovviamente era in quello finestrino. Per mettere su il trolley si è sbilanciato col bacino in avanti fino a colpirmi la testa nonostante mi fossi spostata con disgusto. Dopo minuti interminabili di sistemazione (e leva la giacca, e rimetti la giacca che fa freddo, e prendi la busta, e rimetti la busta di sopra, e tira fuori le caramelle, anzi no rimettiamo le caramelle nella borsa fregandomene se tiro gomitate alla vicina che stammmale) finalmente si siede al suo posto, con le gambe larghe, così i suoi ginocchi toccano i miei, ecco, accavallo le gambe e lo frego. Poi si ricorda di avere un telefono in tasca, compie manovre inutili da seduto per cercare di sfilarselo dalle chiappe, si alza in piedi sgomitandomi in faccia: lo stuart norvegese l'ammonisce lanciandomi un'occhiata di profonda comprensione. Intanto i motori rullano, io mi sento male. Lui si sporge per guardarmi in faccia: se prima mi stava solo antipatico, adesso lo odio.
- Paura, eh? Ahah. Italiana, giusto?
- Eh? Io? No, si.
- Sei di Pisa?
- No.
- Viaggi per lavoro?
- Si, no...
- Ma sei a Oslo? Io prima volta in Norvegia, in genere vado verso est per la...
- Se non le spiace...(prendo il libro su Billy Wilder)
- Ma no! Figurati!

...

- Ah ma vedo che ti piace il cinema!
- Un po'...
- Io sono un PATITO di cinema!
- Eeh, immagino.
- Che cinema? Italiano, americano, ...?
- Mah, tutto...facciamo francese.
- Hai ragione, sai! Un po' lenti i film francesi, però...
- Però, cosa?
- Però belli!
- Non ho mai capito perché il concetto di 'lentezza' debba essere correlato a quello di 'bruttezza'
- Ma no, magari noia.
- Ah. La noia è anche nei tempi serrati.
- Ma lo sai che mi stai facendo riflettere?
- Si?
- Vuoi bere qualcosa?
- E che siamo al bare?
- Ahahahahahahah! Simpatica! hihihi (sghignazza)
- Cmq, no grazie.
- Non dovresti avere paura, lo sai che l'aer...
- ..è il mezzo di trasporto più sicuro, losoloso.
- Ahahah! Senti, e l'attore francese che più ti piace?
- Mah, facciamo Noiret?
- Fortissimo, sì. Scommetto che ti piace anche Alain Delon! (sorride ammiccando)
- Eh beh...
- Eeeeh, belluomo, ma come attore bof...
- 'Bof', ha solo marchiato a fuoco parte importante della cinematografia francese, ma va beh...
- Eh si, c'ha pensato Visconti a marchiarlo a fuoco! Ahahahah (ride sommessamente)
- Non è colpa tua se hai le Hogan.
- Cosa?
- Dicevo: non è colpa tua se hai le Hogan.
- Vuoi dire che me le hanno imposte? Guarda che ti sbagli, non sono uno che va dietro alle mode o altro. Comunque potresti anche essere un po' più cortese.
- Hai ragione sulla cortesia, è che dietro alla frase su Visconti fa capolino il vuoto compresso. I belli: quando non si può dire che sono froci, allora sono passati sotto al pederesta di turno. Concetti poveri che tendono ad esaltare una psicologia da macho di periferia italiota che per dimostrare la sua supremazia da duro che te apre in due, deve guardare ad est perché ad ovest di Bucarest le Hogan non fanno effetto e lo schifano tutte.

Occhei, l'ultima cosa non gliel'ho detta. Gli ho detto invece:

- Ahah! Ma no, scherzavo! Scusa.
- Aaah. Ti chiami?
- Se non ti spiace, riprenderei la lettura.
- Beh dai, sei passata dal lei al tu, è già qualcosa.
- Tantissimo.
- Scusa, ti spiace se passo che devo andare in bagno? Se vuoi prendi pure il mio posto, l'ho tenuto caldo! (fa l'occhiolino)
.....

- Beh, allora buona permanenza in Norvegia, ti lascio il mio biglietto da visita, nel caso tu...

Mi porge un biglietto da visita con ottomila titoli davanti al nome che leggo a malapena. Ho il maldipancia, mi lacrimano gli occhi e mi gira la testa. Ho dovuto trattenere la paura e l'orrore insieme. Passando da uno specchio mi vedo e non mi riconosco, due occhiaie spaventose su un viso bianco mi fanno sembrare un panda. Esco fuori dagli Arrivi e respiro a pieni polmoni l'aria che profuma di legno e aghi d'abete. Mi guardo nello specchietto del taxi e vedo che sono tornata normale. Il tassista zitto e cortese mi sembra una divinità da adorare. Mi rilasso, telefono, faccio un po' di cazzi miei, parlo con persone che stimo. Amici. Mi levo le scarpe.


Prima di un lungo viaggio in aereo mi faccio crescere la barba. Per partire mi vesto da straccione, mi imbottisco di sonniferi e dormo quasi tutto il tempo. Nei momenti di veglia leggo libri orripilanti con copertine inquietanti tipo Le Teste di Giuseppe Genna.
La mia misantropia è letale. Non per gli altri, per me. Morirò vestito di stracci, puzzolente e con un thrilleraccio tra le mani scritto da uno qualsiasi, misantropo come me, morto come me.

Alessandro Edoardo Leblanc





martedì 27 agosto 2013

Favorisca i Travis



Domenica sono stata a Bergen, che forse è meglio di Stavanger, o forse no, dipende dai gusti. Si estende sulla Bergenshalvøyen, una verde penisola appoggiata sui fiordi. Gli odori di muschio e abete si mischiano a quello del mare, e se lo sente Chanel ci fa uno profumo che non sarà mai erotico come quello reale, mi spiace. E' una città incantevole, abitata da persone incantevoli. Tra Bergen e Stavanger ci sono poco più di 200km, ma il viaggio è lunghissimo. All'andata ero in compagnia di una mia amica che abita a Bergen, quindi le ore trascorse in macchina sono volate. La sera, dopo aver lasciato la mia amica a casa, sono tornata indietro con la sicumera di una che la strada l'ha già fatta, eppoi, c'è il navigatore, mica mi perdo, io. Dopo poco più di un chilometro mi sono fermata a scattare delle foto (tramonto rosso con nuvole grigie, capirai, e chi se lo fa scappare?), c'era una famiglia di Los Angeles che faceva lo stesso. Ovviamente due chiacchiere, ho un cugino che studia fisica a Santa Barbara, uno zio che sta a Dallas, un fratello che sta a New York quando non è negli Emirati Arabi, parte della famiglia di mia madre abita a Chicago, ma che bei bambini, anche io ne ho, quando state?. Mi hanno invitato a prendere qualcosa nel bar di fronte al ciglio della strada con vista mozzafiato. E credo che siano passate più di due ore. Era tardi, mezzanotte. Era buio pesto. Ciao ciao, tante care cose, buon proseguimento della vacanza. E mi prende una botta di sonno allucinante. Ho capito, navigatore aiutami tu che non so se ce la faccio. Imposto Stavanger, il simpatico aggeggio calcola la distanza e la durata del viaggio e me pija un colpo al cuore che neanche se m'avessero detto che m'aspettava la morte: cinque ore e trentasei minuti di viaggio. Considerato che la mattina dopo alle otto e mezza, dovevo essere a scuola, m'è preso lo sconforto. Mando un sms alla mia amica 'cinque ore di viaggio, possibile?', lei mi risponde 'ma sei sobria?'. Annamo bene. Arrivare in ritardo e con gli occhi incollati il primo giorno del lavoro di squadra (tradotto alla lettera, sarebbe il giorno in cui come ne Le simpatiche canaglie, ci si traveste da adulti impegnati a progettare programmi interdisciplinari) sarebbe proprio disdicevole. Riacciuffo l'amico navigatore, riscrivo tutto per benino, questa volta con i nomi delle vie, ricontrollo che la nazione sia Norvegia, e non Nord Carolina (ché negli Stati Uniti c'è pure un posto che si chiama Florence, non vedo perché non ci possa essere Stavanger) e faccio rifare il conto all'affare. Niente da fare, le solite cinque ore abbondanti, anzi, qualcosa in più. Forse perché ho messo i nomi delle vie. Va beh, sono stata nel deserto in Arizona una settimana, ce la farò ad attraversare due fiordi di notte, da sola, con il sonno e con un leggerissimo giramento di balle. Ah, ma io ho un marito! Telefono a Steve: sono a Bergen, cinque ore per andare a Stavanger, possibile? La riposta è stata no solo se passi pure dalla Finlandia, con l'aggiunta di tutta una serie di indicazioni stradali correlate da nomi delle vie in norvegese strettissimo, che è perché mi chiamo Leblanc e non Cozzolino che mi sono trattenuta da dire 'mavafangulo!'. Va beh non è la prima e non sarà certo l'ultima notte che passo in bianco.
Guido per più di un'ora, con l'ultimo cd dei Travis (che non è male, anzi), poi mi fermo a riflettere (non voglio ammettere che morivo dal sonno). E mentre sono ferma sulla corsia di sosta laterale, con la coda dell'occhio vedo un'altra macchina accostare alla mia destra. Tranquilla Nicole, che qui in Norvegia all'una e mezza di notte, alle donne sole al buio in mezzo al nulla, la cosa peggiore che può succedere è di vedere Babbo Natale. Fisso il cellulare e faccio finta di niente, poi sento parole in norvegese pronunciate da una voce maschile. Forza Nicole, voltati, e guarda chi è, non fare la codarda, ma perché non tieni uno spray al peperoncino in borsa come tutte le signore per bene? Mi giro e credo di aver fatto il sorriso più autentico della mia vita: una macchina della Polizia con due meravigliosi poliziotti dentro. Scendo dalla macchina, ne scende uno (l'avrei baciato in bocca, french girl french kiss) buonasera signora, se possiamo essere utili.. Utilissimi! Mai stati così utili! Mai visto due uomini così utili! Siete talmente utili che vi farei pure entrare in cucina, fossimo nel salotto di casa, ad aprire la bottiglia di vino e poi a buttare via la spazzatura, come fanno tutti gli uomini utili. Spiego che devo andare a Stavanger, che vengo da Bergen, che ho il navigatore, ma che effettivamente la distanza mi pare troppa. Scende anche l'altro tipo dalla macchina, si toglie il cappello per salutarmi, allungo la mano aspettandomi un baciamano, invece me la stringe e basta. Il primo poliziotto mi dice che sto prendendo un'altra via e che la strada per arrivare direttamente a Stavanger è un'altra. Questa che sto percorrendo evita il traghetto, ma è molto più lunga. Allora tiro fuori il navigatore stolto dalla macchina, e i due cavalieri cominciano a armeggiare con tasti e tastini e in meno di due minuti me lo restituiscono dicendo Signora, lei aveva escluso le strade a pedaggio dalle impostazioni principali. Ah, e quando l'avrei fatto? Mai toccato niente del navigatore. Mi sento una cretina, ma siccome sono una scema socievole, racconto anche un po' di cazzi miei mettendoci qualche battuta, e i due cavalieri ridono, sempre all'unisono, tanto che pensavo di vederci doppio. Uno si mette alla guida della mia macchina, e mi dice dorma pure (so you can sleep now, strano che non abbia aggiunto my love), l'altro ci segue con la macchina. Io ovviamente, non ho chiuso occhio, ho solo fatto finta per non fargli dispiacere. Bella musica, i Travis, giusto? DiceVa beh, ma sto sognando, dai. Non può essere vero.
Mi accompagnano fino al bivio che mi avrebbe portato al traghetto. Mi lasciano un numero di telefono e mi danno indicazioni circa un'app da installare sul telefono, da usare in casi simili, poi ci salutiamo, strette di mano piene di fiducia, sorrisi, occhi colmi di gratitudine...(i miei). E la paternale? Quella del tipo non si giuda quando si avverte il sonno? E la patente? E i documenti?
Chissà se in norvegese esiste il corrispettivo di favorisca. Forse no.


sabato 24 agosto 2013

Obiettivo realtà



Ogni tanto mi metto alla prova, lancio delle vere e proprie sfide a me stessa. L'ho sempre fatto, sin da piccolissima quando salivo e scendevo di corsa le scale di casa contando quante volte lo facevo in mezz'ora. E ogni volta provavo a battere il mio record personale. O quando in piscina facevo le gare di apnea, sempre con me stessa, perché nessuno voleva 'giocare' così con me. Ma le sfide sono state anche mentali, emotive; provavo, ad esempio, a fare a meno della mia amica del cuore per qualche giorno, per studiare le mie reazioni psichiche, per trarre conclusioni del tipo sì, ce la posso fare/no, non ce la posso fare.
Ho sempre fatto fotografie, come dice  Charlotte (Scarlett Johansson) in Lost in translation: I tried taking pictures, but they were so mediocre. I guess every girl goes through a photography phase. You know, horses... taking pictures of your feet. Solo che io dalla fase foto (dei piedi e non) e dalla fase cavalli, non ne sono mai uscita.
Quando ero una fanciullina di 11 anni, mio padre mi regalò una Polaroid. La felicità di possedere una macchina fotografica che sfornava foto istantaneamente me la ricordo ancora, credo sia stata una della gioie più grosse della mia pre adolescenza. Le mie erano fotografie nichiliste: forchetta con gelatina, manico di scopa per terra, kleenex dentro il cestino della carta, dito graffiato dal gatto, occhio che lacrima.
E' abbastanza intuibile capire quanto per me, il periodo del digitale e dell'editing fotografico, rappresenti come per il goloso, una vera e propria pasticceria ricolma di torte e dolcetti.
La sfida di questi ultimi giorni, è riuscire a capire cosa sia per me la fotografia. E per capirlo devo privarmene. La mia ultima foto scattata con la Leica è di due giorni fa. 48 ore sono relativamente poche, ma sono sufficienti per farmi intuire alcune cose.
Sophie Calle in una delle sue opere, La Filature (il pedinamento), chiese a sua madre di mandarle un detective per seguirla e fotografarla in diversi istanti della giornata, come conferma della propria esistenza. Perché la realtà spesso sfugge, e il bisogno di afferrarla e trattenerla in qualche modo, come quelle bottigliette con su scritto 'aria di Positano', è quasi irrefrenabile. Il mondo che mi circonda mi piace a tal punto, da dubitare della sua esistenza. La campagna della Val di Chiana, esiste? Io la vedo, sembra un patchwork, come quelli che facevo insieme a mia nonna. Con i ritagli di stoffa, mi piaceva accostare i colori che stavano bene insieme. La campagna senese è uno splendido patchwork dove il giallo ocra, il verde foresta, il bronzo e il verde oliva, si alternano con grazia e perfezione. Le cuciture sono le strade e i viottoli sterrati. Mangio con gli occhi e con il cuore, quindi fotografo.
Ne consegue che quando non lo faccio sono insoddisfatta. Ero la croce delle gite scolastiche, quella che faceva fare tardi a tutti perché 'vedi quell'angolino? Lo devo immortalare' o quella del 'tu mettiti qua, tu mettiti là, no, un po' più a destra però fai finta di farti i cacchi tuoi che le foto in posa, no, mai, per carità'.
Kafka diceva una cosa abbagliante. Tre cose: vedere se stessi come una cosa estranea, dimenticare ciò che si è visto, conservare lo sguardo.
Non è facile.

Osservo da sempre la mia vita e non mi importa della definizione, anzi, quando guardo foto troppo definite mi paiono fredde, senza anima. Non sono interessata al numero di pixel,, fosse anche uno solo, un grosso pixel rosso rubino, quello che conta per me è lo scatto fotografico, non la resa. Una notte al mare non c'era la luna, le acque marine erano plumbee, la sabbia al buio sembrava grigia antracite, e ho fatto una foto senza flash con ISO a 100. Una foto blu notte. Poteva anche essere un pixel solo. O forse lo era. L'importante per me era il colore della notte. Riguardandola ne sento ancora il profumo.

La foto sopra è una di quelle che mi piacciono, in Sicilia due anni fa, indovinare dove.


La realtà che ho io per voi è nella forma che voi mi date; ma è realtà per voi e non per me; la realtà che voi avete per me è nella forma che io vi do; ma è realtà per me e non per voi; e per me stesso io non ho altra realtà se non nella forma che riesco a darmi. E come? Ma costruendomi, appunto.

Uno Nessuno Centomila - Luigi Pirandello




lunedì 12 agosto 2013

Io e il Mondo Mamma



Mentre sono all'aeroporto di Pisa, di fronte al distributore di piadine e sushi, seduta ad un tavolino in ferro nero pieno di mosche che puntano la mia lattina di Coca Zero (beh, vi ho regalato un briciolo di depressive live, come vi sentite adesso?), decido di scrivere due paroline in merito al mondo mamma, come trovereste scritto su Gioia o su Grazia, o in uno a caso di quei settimanali che suscitano da un numero imprecisato di lustri la stessa domanda: ma chi è che li compra?
Il mondo mamma è bello incasinato. Considerazione globale, scaturita però dall'osservazione di una sola coppia con due bambini piccoli, seduta al tavolo di fronte al mio. Lui dà lo yogurt alla bimba, lei (la moglie, si presume) invece pulisce il tavolo con l'avambraccio, dondola la carrozzina con l'altra creatura, parla al telefono, si sistema le ciocche di capelli, e rotea le caviglie come a sgranchirsi le ossa. Lui si limita a dare lo yogurt alla figlioletta, in posizione seduta rigida, a 90 gradi, proteso nel compimento della sua azione. E quando la piccola si rifiuta serrando la bocca, il paparino insiste con il cucchiaino (si chiama operazione sfondamento). Ovviamente la pappina rosellina finisce ai lati della bocca e gocciola sul vestitino, e la mamma, mentre fa le cose di cui sopra, con la velocità di una salamandra braccata, tira fuori un fazzoletto di carta dalla borsa e trova il modo per pulire la bocca alla piccola, lanciando occhiatacce di rimprovero al marito. Il tutto sempre parlando al telefono.

A me sale l'ansia. Io non sono così, non sono mondo mamma. Provo a mettermi nella situazione della coppia che osservo, e traggo le seguenti considerazioni:

1) Io lo yogurt rosa a mia figlia sdentata non l'avrei dato, non per qualcosa, ma perché lei al primo cucchiaino me l'avrebbe sputato dritto in un occhio, ed io le avrei detto 'hai ragione, sta merda la diamo a paparino, guarda come la mangia papà, vedi?'.
2) Io il vestitino a balze rosa a mia figlia non l'avrei mai messo, ma solo perché lei non l'avrebbe voluto.
3) La carrozzina non l'avrei dondolata, avrei detto a mio marito 'Tuo figlio piange, vedi di far qualcosa, tira fuori la tua proverbiale creatività, mentre io vado in bagno a sistemarmi i capelli'.
4) Se avessi visto mio marito insistere con il cucchiaino praticando operazione sfondamento, gli avrei detto 'Non insistere, fai il ritroso, funziona con le donne'. Lui mi avrebbe risposto 'ma se mi hai appena detto che con te non attacca mai!', ma questa è un'altra storia, non divaghiamo.
5) Non avrei mai lanciato occhiatacce di rimprovero a mio marito. Non mentre parlo al telefono, almeno. I rimproveri sono belli solo quando diretti, senza intralci: quando si può urlare, pestare i piedi, ringhiare, graffiare, fare pace.
6) Tutte quelle cose, compreso il gesto distratto, ma ossessivo, di pulire il tavolo con l'avambraccio, non ce l'avrei fatta a farle contemporaneamente.
Avrei cantato sottovoce, probabilmente. Letto le ultime pagine di un libraccio appoggiato sugli scaffali della libreria, spento il telefono perché all'aeroporto suona per dire quando parti-quando arrivi-dove vai, andata a fare due passi fuori per provare l'ebrezza di passare dall'aria condizionata a quella non, osservato il monitor delle partenze facendo finta d'essere in una multisala con i titoli dei film 'danno Francoforte di Alitalia alle 12 e 15, vediamo quello?'. Salutato persone sconosciute al gate degli arrivi, solamente per il piacere immenso di vedere che faccia avrebbero fatto. Ed infine preso il barattolino di yogurt rosellino, portato in bagno, rovesciato nel wc, e tirando lo sciacquone avrei detto 'Ti auguro buon viaggio a bordo di Ryanair'.

Il mio mondo mamma non è mai stato da rivista, non corrisponde a quello che leggo nei blog delle mamme. Non sono attenta, non sono salamandra nel tirar fuori fazzoletti dalla borsa, non ho kit di pronto soccorso, non so fare il cake design. Sono disorganizzata, disordinata, spesso con la testa tra le nuvole, vado ai colloqui con le insegnati e finisco per parlare di come si vive bene in Italia, nonostante tutto, o dell'ultimo film visto. Faccio le torte storte con la panna e mi brucio i polsi tutte le volte che uso il forno. Vesto i miei figli secondo i loro gusti, metto loro la maglia della salute sbagliata "ma non è caldo cotone, questo!" (come mi disse una volta una mamma attenta, non ho mai capito la differenza tra cotone e caldo cotone, lo ammetto). Non ho mai avuto bisogno di dritte per superare la depressione post partum, anzi, post partum stavo una favola. La depressione m'è venuta prima, quando allo specchio mi vedevo come la donna cannone travestita da balena e leggevo la pietà nell'altrui sguardo per cotale cetaceo aspetto. Ho sempre adorato allattare quando quasi tutte le mie amiche mamme mi dicevano 'pazza, 18 mesi di allattamento, ma sei pazza, una donna oggi come fa?'. Non ho mai usato il reggiseno da allattamento, non ho mai parlato dell'episiotomia così come i reduci della guerra in Afganistan, non mi sono mai dilungata circa malanni dei miei figli.
Come fa una donna oggi? Ho scelto di avere due figli quando le mie amiche coetanee ancora andavano in discoteca e mi dicevano 'ma li fai così presto?' strabuzzando gli occhi. Adesso che in discoteca ci vado io, le mie amiche coetanee che stanno solo pensando ad avere figli, mi dicono 'ma vai in discoteca adesso?', sempre strabuzzando gli occhi.
Lo faccio apposta a sbagliare i tempi, più sono criticata più sono interessante.


Tutto il ballo, il mondo intero, tutto si coprì di nebbia nel cuore di Kitty. Soltanto la severa educazione ricevuta la sosteneva e l'obbligava a fare quello che da lei si pretendeva, cioè ballare, rispondere alle domande, parlare, sorridere persino. Ma, prima che cominciasse la mazurca, quando già si allontanavano le sedie e alcune coppie s'erano mosse dai salotti verso la sala grande, Kitty fu presa da un attimo di disperazione e di sgomento. Aveva rifiutato cinque cavalieri e ora non ballava la mazurca. Non c'era neppure speranza che qualcuno l'invitasse; proprio perché ella aveva un così grande successo in società, a nessuno poteva venire in mente che non fosse impegnata fino a quel momento.
Lev Tolstoj  - Anna Karenina

domenica 21 luglio 2013

Razze da spiaggia



Premessa, uso il romanesco (scritto male, non avendo niente di romano nel dna) perché mi viene meglio, anzi, mejo. Mi calza, anzi, me carza, alla perfezione per descrivere la cafonaggine. In realtà il cafone per eccellenza è del nord Italia, hinterland milanese o dintorni di Bergamo, leghista, sempre leghista.

Se vai da anni nelle stesso posto di mare ormai hai la 'comitiva', sempre più vecchi anno dopo anno, prima fidanzati, sposati, poi tutti separati, con fiji de qua, dellà, un po' loro, un po' d'a nuova compagna..poi ci hanno er cane, quelli più simpatici er pitbbbbull, che caga sulla spiaggia, che se rotola noncurante, sbavando, bello cagnolino nostro...
Quindi anche all'interno della comitiva puoi trovare varietà di razze umane che neanche alle Galapagos. Si sono evolute(?) con il passare dei lustri. Alcuni sono diventati pure dei 'pezzi grossi' (aho' quello sta a mediasette è capo de na televisione, me pare, quell'artro c'ha tutta Roma, tutta, ha più palazzine lui de Ricucci), quindi automaticamente dei pezzi di merda ignoranti. Altri invece si sono radicalchicchezzati, che prima da ragazzini li chiamavamo 'er caccola' da quanto erano beceri, e adesso scendono in spiaggia non prima delle 17 e 30 con l'ultimo libro in lettura sotto l'ascella, il panama invecchiato apposta (ci si sono seduti sopra una cinquantina di volte, ma l'hanno comprato settimana scorsa), la pipa e lo Speedo pendulo. I rivoluzionari da salotto che insegnano tutti filosofia all'Università, possibilmente di Pisa, e che la sera ti invitano a casa per un bicchiere di vino e una canna. Stimola.
Ma quest'anno mi voglio soffermare su alcune categorie poco analizzate altrove, in altri post letti qua e là.

La spiaggia-stalker

Io ho la mia, quest'anno. E' una ragazza di 35 anni che ne dimostra 35, fisicamente. Mentalmente pare mia nonna, ma non mia nonna come è adesso, mia nonna come se fosse nata in un paesino in provincia di Licata nel 1874. Una che dice 'divorziato' sottovoce e con gli occhi spiritati, come se equivalesse a 'ha un cancro ai testicoli'. Con me si diverte un sacco, ma non ha capito chi sono, evidentemente. Ci siamo presentate la settimana scorsa, con nome e cognome. E lei, nonostante ciò, continua a sottolineare quanto siano stronzi i francesi. Ma a parte questo piccolissimo particolare, la signora mi segue ovunque. Mi manda sms alle 7 del mattino, pimpanti, che suonano così "Buongiornooooooo!!!! In che spiaggia andate oggi????? Baci!!!!".
Parla in continuazione del marito, che non c'è. Sta a Roma a scrive. Ma a scrivere cosa? Boh. E' un mistero. Ieri è arrivato, mi aspettavo un surrogato di Alain Delon, m'aveva fatto una capoccia così con sto marito bellobello, invece è arrivato er patata. Ma meglio così, per lo meno ho smesso di sognare occhi azzurri e capelli corvini.
Caratteristiche della spiaggia-stalker sono:
- logorrea allo stato puro
- problemi con l'ombrellone, sempre (non è che tuo marito potrebbe aiutarmi a piantare l'ombrellone? Sai, se ci fosse il mio...)
- parla solo lei, se provi a dire qualcosa sembri Proietti nello sketch della telefonata o affetto da balbuzie
- ti ruba tutto: creme solari, maschere subacquee, costumini dei figli, acqua fresca (che ce l'hai frizzante?), frutta, anche il marito. Ce prova, almeno.
- sms sempre. De notte, de mattina, de sera...e se non rispondi "perché non mi rispondi, cosa stai facendo?????"


La Ricettara

Questa tipologia non ha un'età. Diciamo che non è quasi mai sotto i 25, però. Quando s'è fatta 'na certa, comincia a parlare di ricette, e lo fa con la bavetta, o mentre tira su la saliva con risucchio.
La domanda classica è: "ma tu che ce metti nell'insalata de riso? 'na cucchiaiata de maionese per ingentilire, c'ha metti?"

Il Suvvarolo

Il suv in città non serve ad un cazzo, se non a romperlo, diciamolo. Ma in queste zone, eccome se serve. E purtroppo ce ne siamo accorti tutti, tutti quelli che vorrebbero stare in pace in spiaggia senza sentire il suvvarolo che ti arriva ad un metro dall'ombrellone sollevando una polverone che neanche la tempesta del deserto del Sahara durante i monsoni. Poi scende, in genere, un dementino, con il culo basso perché non fa mai un metro a piedi, e il tatuaggio sul collo del piede abbronzatissimo.

La Coppertone style

Una volta la pubblicità della crema Coppertone era carina, con cagnolino che tirava giù il costumino alla bimba. Oggi verrebbe giudicata scandalosa, pro pedofilo medio. O maschilista.
Alcune hanno deciso che la chiappa va scoperta, ma in modo freudiano. Non c'è un cane che tira il costume, ma è proprio la soggetta che se lo tira, se lo mette tra le chiappe e se lo abbassa sino a scoprire le zone bianche. Il perizoma è démodé come il topless, quindi il costume va in mezzo alle chiappe, e ci va apposta. La domanda è: perché?

Quella che raccoglie le conchiglie

Ci sono tanti modi per raccogliere le conchiglie sul bagnasciuga, poi arriva quella che te le raccoglie mettendosi a 90 gradi, con una gamba tesa per tenere i muscoli in trazione, e il piedino a punta per allungare la gamba. Mio marito tira fuori sempre le sue battute anglosassoni "se qualcuno non le fa un complimento entro due minuti, temo per la sua colonna vertebrale"

Il gommista svalvolato

Non è quello che vende pneumatici, è un maledetto scemo proprietario di gommone. In un film di Woody Allen, parlando di un affare su di una barca a vela, viene detto "no, non compro una barca da uno, sarebbe come comprarsi il malditesta di un altro", e in effetti chiunque abbia mai posseduto una barchettina o un gommoncino, sa quanta fatica si fa: è un pensiero in più, peggio di un San Bernardo.
Quando il gommone se lo compra un cretino, ecco che il problema è anche degli altri.
Il soggetto in questione lo usa come un quindicenne userebbe lo scooter truccato. Apre a manetta a un metro dalla riva, le persone intorno schizzano via come nel film Lo squalo 3, urli ovunque, gli stessi che partono quando volano via gli ombrelloni. La Guardia Costiera? Missing.

To be continued...


giovedì 18 luglio 2013

L'Isola de La Maddalena e la Valigia dell'Attore




La Valigia dell'Attore è una poesia di De Gregori.

La Maddalena è un'isola sarda.

Gian Maria Volonté, uno dei migliori attori che la storia del cinema italiano abbia visto mai, ha deciso di vivere parte della sua vita sull'isola de La Maddalena. Ha deciso anche di essere sepolto su quest'isola, tra il profumo di mirto e elicriso.
La figlia di Volonté ha continuato a credere nel potere culturale del cinema italiano e del mestiere dell'attore, e proprio alla Maddalena ha fondato un'associazione. Tutte le estati questa associazione si propone di far conoscere il cinema italiano, che è stato e che è tutt'ora. Le manifestazioni si chiamano: La Valigia dell'Attore. E si svolgono tra luglio ed agosto.

Mio padre 34 anni fa decise che questa parte della Sardegna, che l'isola della Maddalena, doveva appartenere un po' anche a lui, e di conseguenza anche ai suoi figli. Si innamorò dei colori, dei profumi, delle rocce, della gamma di sensazioni contrastanti che queste zone riescono a trasmettere.
Decise che doveva comprare una piccola casetta qui, di fronte a Caprera, altra isola dell'arcipelago dove ha vissuto ed è sepolto l'esiliato Garibaldi (quel grand figo di Garibaldi, oserei dire).
Il silenzio ed il mare, i colori tra il verde smeraldo e il turchese, il blu intenso delle bocche di Bonifacio, l'infinità di venti che hanno piegato i pini marittimi fino a novanta gradi, Budelli, Santa Maria e Spargi, la spiaggia bianca caraibica, lo scoglio e la graniglia, i fichi d'india, le scalate sulle cime di Caprera la mattina alle sette, le immersioni con le bombole, le tavole da surf di mio fratello, le ginocchia segnate dalle ferite, i ricci di mare, i pescatori di conneri, tutto questo ha formato la mia persona. Quando leggo di vacanze in Sardegna vippettare, di quello scempio edilizio che è la Costa Smeralda (una Gardaland per Briatori e Venture), di eventi di stograncazzo, mi viene l'eritema.

Tornando all'attore: nella mia prossima vita farò l'attrice vera. Nel senso che mi pagheranno per farlo. Non lo farò per hobby, con l'acca aspiratissima. Lo farò veramente, con la valigia. E verrò alla Maddalena, come vengo adesso, per raccontare cosa vuol dire recitare per mestiere, cosa vuol dire vivere con la valigia. Ah, ma questo già lo so.

http://www.valigiattore.it/la-maddalena/la-valigia-dell-attore/il-lavoro-dattore.html

..siamo l'amante e la sposa, siamo arrivati sin qua