martedì 4 giugno 2013

Barefoot (un'idea di Marocco)








Scrivere in aereo è, come dice una mia carissima amica, roba da culi duri. Cosa siano i culi in metafora, non so, né per quale motivo siano ritenuti duri.
Inizio a scrivere con l'intento di fare un resoconto di questi tre giorni passati in Marocco, poi come spesso mi succede, mi distacco dai miei stessi intenti e divago chiedendomi: ma perché scrivo? La riposta non c'è, temo.
Bisogno di fare il punto, di mettere in chiaro la situazione per poi ripartire. Ci sta. Sarà per questo che ho aperto e richiuso 4 blog nel giro di pochi anni. Li chiudo quando mi accorgo che li visitano in troppi. Il pudore su internet non dovrebbe esistere, potrei tenere un diario cartaceo, ma poi finirei per scarabocchiarlo con le faccine sceme.
Qualcun altro molto più pratico, dice che scrivere è come il sesso, si scrive per stare bene e per sentirsi dire, dopo,'sei stato bravo/a'. Narcisismo applicato. Assolutamente no, protesto! Dopo non voglio detto niente del genere, e poi mentre scrivo io soffro, spesso mi viene da piangere. Quindi masochismo. Ci sta pure questo.
Tre giorni in Marocco non fanno una settimana, come direbbe Corie a Paul nella commedia di Neil Simon Barefoot in the park, mettendo in discussione un matrimonio appena cominciato. Io e il Marocco ci siamo appena sposati e già ci separiamo. Perché in tre giorni abbiamo fatto tanto, ma non ci siamo convinti a rimanere insieme per sempre, o per un'idea di 'sempre', l'idea dell'uomo comune. Quindi un'idea fallace.
Cosa vuol dire 'per sempre'? Cos'è questo sempre di cui tutti parlano?
Sabato sera mi era sembrato di aver trovato uno dei miei sempre, a dire il vero. Quando osservando un sessantenne in una fumeria d'oppio, mi ero detta 'non sarò mai capace di capire, sarò per sempre incapace'. Incapace di entrare nei meccanismi mentali di un uomo che trasporta sacchi di spezie tutto il giorno e che la sera, dopo aver salutato i nipoti, i figli, le mogli, si sdraia su di un sudicio divanetto e si stordisce. Forse perché non esiste più niente, blu intenso del mare, canto straziante degli uccelli, capace di stordirlo. La bellezza della terra, del cielo e degli abissi non gli bastano più. Forse non gli sono mai bastatati. O forse li ha sempre dati per scontati.
Magari non ha sessant'anni, ne ha trenta: si invecchia presto a fare le scale (sempre da Barefoot in the park).
Le scale non le vuole fare più nessuno, prendiamo tutti l'ascensore. Poi, dopo una giornata di ascensori e scale mobili, ci chiudiamo in una palestra e diventiamo maialini d'india che corrono sulla ruota. Per buttare giù i chili guadagnati pensando. Per spendere i soldi, guadagnati pensando. Soldi virtuali, numeri sul conto home banking spesi con carte di credito.
Un Paese, il Marocco, che non pullula di gente laureata. Esistono ancora la manovalanza, il sudore, il lavoro che ti impolvera le banconote stropicciate in tasca, che ti fa cantare, che ti lascia lo spazio per pregare in un angolo di Terra, sapendo che sarai ascoltato, da Dio, dal vento, da qualsiasi entità tu non riesca a vedere, ma nella quale credi perché ti hanno insegnato a farlo.
Un lavoro dal quale rientri la sera, lentamente, al tramonto, cercando e trovando le mani di una donna che ti prepara la cena, che ti accarezza il sudore, che ti porge un telo appena asciugato dalla brezza marina o dal chergui, il vento caldo del Marocco.
Bambini che lavorano troppo presto la mattina; uomini che ti guardano, ti sorridono, sperano che tu acconsenta a portarli via per una notte, in un'oasi, per poi rilasciarli in mezzo al deserto delle loro consuetudini, del loro Dio, del loro mare. Uomini bambini.
In tutto questo il turismo chiassoso dei volgari europei si inserisce come una macchia scura, stonata, nell'armonia celeste di un quadro impressionista. Li riconosci, sono sempre loro, i superstiti della crisi, i nuovi sciattoni medioevali convinti di visitare un Paese affascinante, ma inferiore. Intuisci dai loro nasi all'aria, la mancanza totale di rispetto e di comprensione. Non capiscono, osservano ma non colgono. Sono vestiti in modo inappropriato, con scarpe da trekking costose, magliettine griffate, borse chiassose, zaffate di profumo, cappellini ridicoli da festival della birra. Le donne in chador stinto che passano loro vicino, li guardano e farfugliano cose all'orecchio ridacchiando, mentre loro con le reflex da "annoiati che si sono dati alla fotografia" tentano di fotografarle, puntando obiettivi spaventosi, fallocentrici. Perché la foto della donna in chador fa tanto National Geographic, poi la posteranno sul gruppo degli appassionati di fotografia di Facebook e faranno una bellissima figura con gli amici, comprese le mogli. Non possono avere le donne degli altri, e allora la sfoggiano con i pixel, con la supponenza della proprietà. L'ho fotografata, adesso è mia.
Entrare in punta di piedi, chiedendo permesso, togliendosi le scarpe, magari, e levandosi il cappello.
Inchinarsi di fronte alla vita di chi suda, di fronte a donne che portano tre figli per volta in braccio, con i sandali rotti di tre anni fa, la polvere del lavoro ancora addosso. Donne troppo prese dall'esistenza per potersi permettere il calcolo della calorie di una fetta di torta. Mi sento inadeguata, si sentono così anche le mie compagne di viaggio, le mie amiche che si sono emozionate in un negozio di specchi.
Hanno visto l'immagine riflessa di un'Europa che non è altro che un grande contenitore del niente. Ci sono troppi vuoti da riempire, e troppa umiltà di riconquistare. Europa piena di persone con la verità in tasca, con ogni risposta per ogni domanda.

Mio marito non mi capisce, ma lo amo.
Mio Marocco non mi capisce, ma lo amo.


Divorzieremo e sarà doloroso, oppure ci capiremo, ci ameremo e vivremo felici come il 15 per cento delle coppie.
Bisogna stare A piedi nudi nel parco.
Sempre.

Nessun commento:

Posta un commento