martedì 23 dicembre 2014

Le piccole avventure di Nicole - L'omino arrogante della caldaia



Prendo il TGV da Ginevra molto presto. Occhi cerchiati, assenza totale di voce, sonno arretrato e un leggero ma persistente cerchio alla testa. Trascorro le mie tre orette di viaggio vicino ad una rubiconda svizzerotta tedesca, che già di prima mattina profuma di mosto cotto e sudore. Doveva aver mangiato qualcosa a base di aglio che, evidentemente, non ha digerito. A nulla valgono le mie ripetute visite in bagno a sniffare le salviette profumate, le mie scorpacciate di caramelle al limone e menta o i miei esercizi di meditazione recettiva. Durante tutto il viaggio sogno il mio nudo appartamento, con le porte montate al contrario e le pareti ancora da intonacare, ma con una doccia da sballo. Scendo dal treno senza pensare altro che a lei, la doccia: caldo, profumo, sciampo, sapone, balsamo e crema. Nonostante la mia compagna di viaggio sia ormai lontana, ed io sulla metro, continuo a sentirne l'odore. Mi viene il sospetto che mi stia pedinando, mi giro ogni tanto per verificare, incrocio lo sguardo dei passanti in una Parigi piena di tutto e di tutti, stipata come uno sgabuzzino, gremita di luci, rumori, colori e impalcature. Fa sempre più caldo e fregandomene della mie corde vocali, mi levo il cappotto e rimango in camicia: mi ammalerò di cattivi odori, mi verrà la febbre a quaranta, non potrò tornare a Ginevra e passerò il Natale da sola, in questa città bellissima ma maledetta.
Spalanco la porta, appendo la borsa al chiodo (prima o poi andrò all'ikea) e vado diretta in bagno per aprire l'acqua con sufficiente anticipo, in modo da trovarla già calda. Annuso il cappotto, gli indumenti, e continuo a sentire puzza di vino rosso, annata scarsa, facciamo Tavernello. Meno male che c'è la doccia, che mi depurerà, mi laverà, una sorta di battesimo, una rinascita. Dopo, potrò tornare ad essere io, anzi, sarò una io migliore. Mi odoro i capelli: aglio. Con la mano sento la temperatura dell'acqua: ghiacciata. Chiudo e apro il miscelatore, niente, l'acqua esce sempre alla temperatura di un sorbetto al limone. Ho due scelte: non mi faccio la doccia, rimango impregnata di Tavernello all'aglio, attraverso la città e vado a lavarmi da mia madre; o simpatizzo con i lapponi e mi butto sotto il getto di acqua ghiacciata, così ho tutto il tempo e la giornata fresca e profumata davanti a me. Opto per la seconda scelta e ancora adesso, a più di 24 ore di distanza, conservo l'atroce sensazione del getto gelido sul cuoio capelluto.
Con le idee fresche e rinnovate, cerco su internet un'assistenza caldaie parigina. Telefono a due numeri e trovo due segreterie telefoniche, lascio messaggi accorati, ma temo non si riescano a sentire dato che sono completamente afona. Telefono a mia madre, la quale si raccomanda: mai cercare le assistenze o i tecnici su internet, potrebbero chiederti ottocento euro per avvitare un bullone, nella migliore delle ipotesi. Infine minaccia di mandarmi Kaddour, il suo compagno. Ricordo che una volta mi chiese aiuto per sostituire una lampadina e che il rubinetto del lavandino della cucina gocciola da quando lui ha installato un aggeggio che promette di decalcificare l'acqua. Non mi fido, madre, perdonami, grazie lo stesso, mi arrangio. D'altronde sono vent'anni che mi arrangio.
Scendo giù dal concierge, che, molto gentilmente, si premura di dare un'occhiata alla mia caldaia. La guarda con i pugni sui fianchi, senza sfiorarla, così come si ammira un'opera d'arte. Rimane in silenzio davanti al parallelepipedo di metallo, poi sbuffa e bofonchia qualcosa che non riesco ad udire. Si sposta lateralmente, inclina la testa, pare osservare l'oggetto sotto un'altra prospettiva, forse sta aspettando di essere folgorato sulla via di Damasco. Chiedo cosa ne pensa, mi risponde scuotendo la testa, che non c'è niente da fare. Comincia a bussare con le nocche sul pannello di metallo, poi ci appoggia l'orecchio, ci manca solo il dica 33. Alla fine ammette che non saprebbe dove mettere le mani, però il fidanzato di Clotilde, la ragazza che lavora alla boulangerie sotto casa, fa il tecnico e l'idraulico, ed è pure una persona onesta.
Infreddolita e anche un po' incazzata, scendo giù in panetteria chi di voi è Clotilde? Clotilde non c'è, è a Roma per le vacanze di Natale. Chiedo allarmata: non sarà partita col fidanzato, vero? No, per fortuna Clotilde e il fidanzato si sono lasciati due settimane fa. Meno male che l'amore non è eterno. Chiedo informazioni sul tipo in questione, una delle ragazze mi dice il est italien! mi strizza l'occhio (e poi lamentatevi, italiani, che all'estero non siete considerati) e mi lascia un numero di telefono. Si chiama Gigi, anzi, come dice una delle due ragazze Gigì.
Dunque, adesso, la mia salute e il mio benessere dei due prossimi giorni è tutto nelle mani Gigì.
Telefono a Gigì, ovviamente c'è una segreteria, ed io, in perfetto italiano, gli lascio un messaggio di pura e nuda disperazione. Mi richiama dopo cinque minuti. Tra italiani ci aiutiamo, figurati, però ecco, non mi fare attraversare tutta Parigi per una minchionata, eh? Cioè, stai attenta, se è una cosa che puoi risolvere da sola, mi pare inutile io venga.Dimmi cosa devo fare, dico a Gigì.
Apri il pannello di metallo, è semplicissimo, basta un cacciavite. Ci sono tre indicatori, controlla quello della pressione dell'acqua che dev'essere a uno. Se è a zero, apri il pannellino che c'è sotto, troverai dei raccordi e bla bla bla, allora poi stacchi la corrente, ma solo per il tempo di riallacciare i condotti e bla bla bla bla
Io so già cosa fare. Lascio passare un quarto d'ora, poi mentendogli lo richiamo e gli dico che ho fatto tutto ma che la caldaia non funziona lo stesso.
Nicole (alla seconda telefonata siamo già in confidenza) senti io vengo, però non è che abbia tutto questo tempo da perdere ecco, e sarei pure in vacanza da ieri. Però vengo, dai.

Attendo Gigi con la stessa ansia che avevo prima degli esami universitari. Ho paura. Se poi si accorge che non ho neanche aperto il pannello? E se mi mena? E se mi mette in punizione? E se non mi fa la domanda a piacere?
Gigi arriva dopo mezz'ora, apro la porta e temo d'aver sbagliato, quello che ho davanti non è un tecnico della caldaia: è vestito come Lapo Elkann ed ha in mano una valigetta in cuoio come i medici di famiglia dei primi del novecento. Ci diamo la mano come soci in affari, ed io già penso che non ho con me il libretto degli assegni, chissà se accetta carte di credito (o cambiali). Mi chiede se sono di origine russa, perché ama la Russia, soprattutto San Pietroburgo, dove sono tutte come me (dice). Poi con il mignolo alzato, svita il famigerato pannello. Hai fatto tutto quello che ti avevo chiesto? Chiede con fare indagatore. La mia pazienza termina e credo di aver manifestato con parole e sguardi, il più grosso giramento di balle di fine 2014.
Io non ho fatto un bel niente, non sei qui gratis, bello mio, quindi datti da fare e risolvimi il problema in fretta, altrimenti chiamo il primo della lista delle persone che vogliono lavorare. E me ne frego se sei italiano come me, che tra l'altro sono più francese.
E Buon Natale, Gigì.

(Sopra la foto di una parete di casa mia. Il cerchio della bici l'ho trovato quando ho preso l'appartamento e mi è piaciuto. L'orchidea è morta due settimane fa. Il quadro è di Kaddour, che non conosce arroganza.)

mercoledì 29 ottobre 2014

Megastatus



Mi hanno chiesto (ma chi, gli ometti de l'internet? come direbbe mia nonna) di scrivere un post sul social network, su facebook in particolare, di come mi (ci) ha cambiato la vita, verso quale tipo di relazioni sociali ci ha indirizzato, ecc. Non credo di possedere sufficienti nozioni antropologiche, né conoscenze in materia di scienze sociali. Potrei, eventualmente, spiegare cos'è per me, o cosa significa per una trentatreenne rivedere le priorità, le relazioni, anche in base alla socialità su internet. Potrei, ma non credo di poterci riuscire. Io, fatta eccezione per qualche caso raro, ho sempre tratto beneficio dal web, in termini di umanità e relazioni. Ho anche litigato con profitto su internet, ma ho pure fatto pace con una parte di me (quella più falsamente frivola) che ho sempre ritenuto non facile da offrire, né tantomeno da digerire. Facebook è per me un prolungamento di affetto, un investimento di tempo (a volte anche pochissimo) per ricordarmi di tutti, o quasi tutti, quelli a cui voglio bene o che stimo o che sono parte della mia vita anche solo per pochi istanti al giorno, o al mese. Credo che alla fine il modo migliore per spiegare cosa sia per me facebook, sia quello di andare sulla mia timeline e con pazienza spulciare un po' qua e un po' là, copia-incollare qualche status, così, random, perché il tempo a disposizione è quello che è. Alla fine credo che esca fuori più ciò che sono io e non altro. Ma rimango dell'idea che l'universo è composto da infinite singolarità, e che uno status scritto di proprio pugno valga più di tutti i miliardi di citazioni, battute e vignette condivise, che hanno il fascino di un imbuto, che si dimenticano con la stessa facilità con la quale si leggono, e che rendono il social network lo strumento più inutile e infruttuoso che possa esistere.

il prossimo che posta il trailer di the hobbit lo massacro a colpi di Brunetta (21/12/2011)


Sono talmente contenta di aver eliminato certi soggetti fetidi, caccolosi e bbbbrutti dalle mie amicizie, che quasi quasi gli richiedo l'amicizia solo per il gusto di cancellarli di nuovo. (27/12/2011)

Pare che ce l'abbiamo fatta. Bene da stasera cambierà tutto, mi berrò un bicchiere d'acqua del rubinetto seduta su un pannello fotovoltaico per brindare all'abrogazione del legittimo impedimento. (13/6/2011)

Per la serie visioni celestiali: il mio collega non ha dormito stanotte, ha una bimba piccola di 3 settimane..e va beh. S'è presentato in ufficio con l'alitosi, le borse sotto gli occhi, la barbetta incolta incrostata e i capelli stile Allevi quando si pettina (ma quando si pettina Allevi?). Ha fame, si alza stiracchiandosi dalla sedia, deambula con difficoltà trascinando le zavorrose timberland sino al frigorifero e tirandosi un po' su i pantaloni sgualciti, che chissà tra quante ere geologiche vedranno l'acqua, il detersivo e il ferro da stiro. Apre il frigo sbadigliando e dice 'ovvediamo icchecc'è, ho una fame moio'. Poi emette grugniti di disapprovazione, alza un barattolo doppio di yogurt alla prugna e al bifidus e finemente esclama 'questi fanno cacà ma veramente', mentre scruta l'interno del frigorifero rimanendo appoggiato all'anta aperta con un braccio, con l'altra mano si gratta il pacco, poi storce la bocca, dice 'bisogna fa' un po' di spesa raga' e prende una scatola di tortellini sfogliavelo Giovanni Rana. Sotto i miei occhi vigili e quelli della segretaria, apre il pacco coi denti dopo averci provato con le unghie che non ha perché se l'è magnate dai nervi ieri sera. Si siede sopra il tavolino vicino al frigo e dondolando le gambe si mangia uno dopo l'altro i tortellini crudi, freddi, direttamente dalla scatola. Infine con lo sguardo perso nel nulla dice 'c'ho una fiacchezza addosso...'. (12/12/2012)

Stasera alle 9, Regal Union Square Stadium 14 - Broadway, ho un appuntamento con Django Unchained. Se non mi piace ingoio la lametta.(30/12/2012)

Uno degli aspetti più 'gradevoli' del buffet è risolvere il gravoso problema di riuscire a mangiare e bere in piedi con due sole mani e senza punti di appoggio, roba che nel Cirque du Soleil ci stanno lavorando. Ho visto persone appoggiare il piattino su pile di libri, mangiare chinati su scaffali troppo bassi o in punta di piedi su mensole troppo alte, ho visto qualcuno mangiare in ginocchio appoggiando il piattino e il bicchiere sulla poltrona, ci mancavano solo la benedizione del prete e l'eucarestia, dopo. Va a finire che si pone una scelta: o appoggio il piattino, o il bicchiere. Siccome in periodi di carestia non si sa mai, sempre meglio abbandonare il bicchiere, così alla fine del buffet per 100 persone ci sono 1056 bicchieri in giro. Ci sarebbe anche l'alternativa di mangiare dal piatto direttamente con la bocca senza usare le mani, poi però c'è il budino e non sta bene succhiare. Il buffet, nonostante siamo nel 2013, in Europa, circondati dal cibo e costretti a passare ore in palestra per non rotolare come palloni, viene classicamente sempre preso d'assalto. E nonostante il catering sia 'eccellente' il tavolo è sempre troppo piccolo rispetto al numero di persone presenti, quindi gli avventori si stratificano creando delle vere e proprie membrane semipermeabili (cit biologica) stratificate, nel senso che esce di tutto, ma non entra niente. Se dopo decine di minuti finalmente riesci a penetrare la membrana e a posizionarti in prima fila, devi avere occhio aguzzo e mano lesta: passare al vaglio le vettovaglie rapidamente e sempre rapidamente scegliere, prima che sbuchi da sotto la 'manina' di quello dietro di te.
Aprirei un capitolo a parte sulla manina, che è l'aspetto più pittoresco dei buffet. La manina non sbuca solo da dietro per fregarti l'ultima tartina al salmone sotto al naso, ma si infiltra un po' ovunque, anche mentre distrattamente prendi un salatino al tavolino degli aperitivi; la trovi tesa verso la flûte di prosecco, sempre pronta a fregarti sui tempi. L'Italia è un po' il Paese delle manine. Divertente è, dopo, riconoscere il proprietario della manina per vedere che faccia ha uno che ti passa da sotto per fregarti l'arancinetto unto. Per questo è utile memorizzare il polsino della giacca e/o camicia (eventualmente l'orologio) oltre a imprimere nel cervello la fisionomia della mano. Speri sempre di ribeccarlo altrove, per fulminarlo con lo sguardo mentre gli mangi davanti al naso l'ultima tartina al tartufo.
Se la membrana è impenetrabile ti trovi costretto a vagare per il salone con il piattino vuoto in mano, che è anche un po' triste: evoca la scimmietta di Remì. Però devi far vedere che tu al buffet ci sei per socializzare, mica per scofanarti tutte le polpettine di spigola. Quindi meglio così, disinvoltamente, con il bicchiere in mano, provi ad attaccare conversazione col primo che capita, peccato che questo è troppo impegnato a puntare i vol-au-vents rinsecchiti, che è l'ultima cosa vagamente commestibile prima di passare per disperazione al vassoio delle crudités, dove svettano carote ossidate, finocchi ingialliti e sedani filacciosi.
Colleghi che cogliendo la tua indecisione, con gli occhi fuori dalle orbite dall'eccitazione ti dicono "vai vai vai, buttati sulle olive all'ascolana, sono imperdibili!". Il tempo di girare la testa verso il vassoio che già non ce ne sono più, rimane solo un avanzo di crosta panata in mezzo al vuoto. E tu ti chiedi come mai persone che fino a mezz'ora prima sembravano tranquille, si trasformano nelle cavallette dell'ottava piaga d'Egitto.
Quando sembra che tutto si plachi, e sul tavolo non rimangono altro che le crudités e l'angolo per musulmani, ecco che si sparge la voce: arrivano i dolci. E prima di frantumare la forchettina di plastica nel tentativo di tagliare la mattonella alle mandorle, decidi che basta, rinunci alla pantomima della finta fame, del prendere, dell'accaparrarsi, quando mangiare dovrebbe essere un momento zen.
Sempre divertente notare il tipo che va a fare la spesa ed evita di comprare alimenti perché c'è l'amido modificato, annientare completamente le sue convinzioni salutiste davanti ad un vassoio di frittura di dubbia provenienza esposto a tossiconi e starnuti. Lo stesso che intinge le mani nelle ciotoline dei salatini misti dove hai 5 possibilità su 10 di trovare un anacardo, e 9 su 10 di trovare uno streptococco, è lo stesso che si scandalizza perché c'è un batterio su un miliardo di torte Ikea.
Divertente, anche se la manina rimane sicuramente la cosa più interessante del buffet.
(19/12/2013)



Berlusconi is a way of life.
Illusi. (28/11/2013)

Non è colpa mia se sono incredibilmente intelligente. (13/3/2012)


Ho sentito dire da voci autorevolissime (godo tanto, lo ammetto) che l'ultimo film di Almodóvar pur essendo 'kontro la kasta' è una cacata paurosa, per dirla alla parigina. Pecco di presunzione sicuramente, ma è dal trailer che lo dico. D'altronde cosa ci si aspetta da uno tra i più sopravvalutati registi/autori degli ultimi 30 anni? (25/3/2012)

Intervista a Nicole L. per la CCCP
- Dica signora Leblanc..signora Leblanc? ma è vero che suo padre si è comprato un iPhone 5 dopo 13 anni di nokia 3310?
- ..mi lasci, scusi...no comment, mi lasci stare...
- NO NO, un attimo, ma è vero che suo padre per 13 anni non ha fatto altro che dire che non avrebbe mai lasciato il nokia 3310, che lui degli smartphone non sa che farsene, dica...signora Leblanc! La prego...
- ho detto che non rilascio dichiarazioni..la notizia mi sconvolge...questo è tutto ciò che le posso dire..se ne vada
- UN'ULTIMA DOMANDA signora Leblanc!! La prego, rimanga..ma è vero che suo padre adesso ha pure un account Instagram, uno per Ruzzle e che le ha mandato richieste anche su Pinterest, cosa pensa? quali sono le sue reazioni? è vero che gioca a angry birds da tre giorni e tre notti?
-..se ne vada! mi lasci in pace, ma non lo vede che sono distrutta?? (28/2/2012)

L'OPINIONE DI NICOLETTA LOBIANCO SUL RISULTATO DELLE POLITICHE
Intanto debbo dire che è stato fin brillante fino alla fine che non si sapeva la percentuale di quello di questo di altri. Io quando sono andata ha votare o visto la Marika col pancione rappresentate di lista del movimento sbatti cinque e le ho detto tu sei pazza tutto il giorno qui ha vagare senza neanche un bagno col bidhè!!!! Poi mi sono anche chiesta se lei ha un libro da leggere che tutto il giorno a vagare in quella scuola alimentare squallida senza neanche, il rossetto per darsi una rinfrescata. Allora le ho portato un thè delle macchinette menomale che c'avevo cinquanta centesimi che quello stronzo dell'esercito militare italiano non mi voleva cambiare leuro. 
Intanto devo dire che la croce lo messa.......non lo dico!!! Ahahahahahahahahahahahaa||||!!! Che importa, tanto ormai si sa che è stato una spece..tipo un pareggio tra Berlusconi e Bersani, che mi stanno antipatici, ma più Bersani perché secondo me non capisce le donne, intanto perché secondo me è troppo fissato con il lavoro va bene, che è importante ma sempre la solita musica non come Renzi che parla anche di altro tipo che l'Italia ha bisogno di un rinnovamento vero, autentico, reale, tangebbile e tante altre cose. Intanto perché lo svecchiamento è importante che anche in cosmesi ad esempio ci sono le creme per il rinnovamento c'è lullare, ho anche il peling lo screb e tutte le altre cose che fanno bene tipo alla pelle della faccia ma anche dell'interno coscia, volendo per dire...
Insomma, purtroppo sono delusa ma anche felice di questo risultato per la Marika che ci teneva tanto e suo marito, il Dario che è un bravo ragazzo lavoratore e poi sè comprato l'iPhone 4s usato che secondo me a 
fatto tipo un affarone, non so se la pagato tipo 200 euro o cose così. Ciao! (26/2/2012)

Che palle sto Clooney (16/1/2012 NB: lo dico da almeno due anni)

Spielberg ha preso l'anima di Hergé e l'ha massacrata a colpi di videogame. Mi viene da piangere. (31/10/2011)

Ho insegnato alla suocera a fare la parmigiana, domani le insegno la Sacher dopo di che possiamo dire addio definitivamente ai cavolfiori crudi e ai piselli rimbalzanti. Love England. (30/10/2010)


Passata una certa (che poi una certa sono 30 anni), come dicono i' cccciovani, alcune super gnocche diventano surreali. Perché alla classicissima domanda 'wow! ma come fai a rimanere sempre così bella e in forma?' la risposta generalmente è 'faccio una maschera per il viso allo yogurt una volta alla settimana, tanto movimento, vita sana e mangio di tutto, anche i dolci! perché io mi coccolo!'
Peccato sia così difficile credere che quel manichino muscolosetto e un po' rachitico, col musetto perfetto, la pelle tirata, le tette sempre in tensione, sia il risultato di un'alimentazione iper glicemica e di un impiastriccìo di yogurt sulla faccia.
Ma non sarebbe più onesto dire 'mi sfinisco di addominali, mangio un seme di melone ed un pinolo al giorno, la notte mi costringo a dormire dieci ore (e quindi neanche scopo), passo i miei pomeriggi a bivacco nei centri benessere, non faccio un cazzo dalla mattina alla sera, passo tre visite al mese dal chirurgo estetico, ho un fidanzato sottomesso alle mie esigenze estetiche e degli amici con i quali parlo solo di acquisti e abbigliamento. Sostanzialmente faccio una vita di merda, sono profondamente infelice, però sono una gran figa e la maschera allo yogurt fatevela voi cesse'  (6/8/2012)

giovedì 18 settembre 2014

The mess



Le scale che portano nella cantina sono buie e tempestose. A partire dal terzo scalino ci sono varie trappole lasciate dai miei figli, i giocattoli. Scendo evitandoli uno per uno, avendo cura di non pestarli, anche se alcuni li prenderei volentieri a calci. Mi guardano male, mi giudicano continuamente. Altri sono addirittura corrucciati: gli ometti Lego. Nessun ometto, neanche un Playmobil, è incazzato quanto un Lego.
La mia cantina è l'apoteosi del disordine, quasi peggio del mio armadio. Se un giorno dovesse tenersi una conferenza sul disordine, credo che potrei tranquillamente spiegare, punto per punto, cosa vuol dire essere disordinati e cosa sia il disordine. Gli ordinati non capiscono, non per cattiva volontà, né per evidenti limiti creativi, ma proprio per incapacità mentale di comprenderne l'arte in esso contenuta. Perché se impilo tutti i libri ai piedi del letto in maniera precaria e traballante, o se sugli scaffali mescolo gli asciugamani piccoli con quelli grandi, o se infilo tutti i fogli in borsa e poi cambio borsa, e dopo tre giorni di cambi continui di borsa ricordo perfettamente quali fogli sono stati infilati a casaccio dentro la borsa di tre giorni prima, allora non sono disordinata: sono un genio creativo. Il mio disordine mi stimola ad essere sempre vigile, imparo anche a dominare la natura, che è comunque, una forma sublime di disordine. Ben diverso è il caos, o il cosiddetto 'casino'. Il caos è del tutto devastante, non c'è l'intento o la voglia di essere disordinati. Nel caos ci si lascia trascinare dalla vita, dagli oggetti e dalle situazioni, senza agire. Il disordine, invece, è concezione. È materia intellettuale, ma è anche passione spinta allo stremo. Il disordinato mischia le carte da gioco e le sparge sul tavolo; il caotico le tira in aria e le lascia cadere, senza neanche guardare dove vanno a finire. Il disordinato sa esattamente dove si trova l'asso di cuori, il caotico non è neanche interessato a cercarlo.
Il casinista, invece, è rumoroso. Un disordinato puro - un creativo, quindi - non fa rumore, non disturba gli altri, non è un fracassone né un molestatore. Il disordine è un concetto intimo, da vivere con se stessi e da offrire agli altri solo quando si decide di dare proprio tutto di se stessi. Il casinista è sempre 'entrante', invadente. Generalmente è un prevaricatore, un arrogante e un bugiardo.
Solamente il vero disordinato ha, ogni tanto, attacchi di ordine quasi ossessivo. Quando si rende conto, essendo ipercritico verso se stesso, che è "ora di mettere apposto". Allora passa le ore, le domeniche mattina intere, a creare un ordine asettico quasi maniacale, con la consapevolezza che nel giro di pochi giorni tornerà il solito confortevole disordine di sempre. Si arriva a limiti estremi, tipo suddividere i dischi non solo per genere, ma anche per ordine alfabetico.
Svuotare la borsa di una disordinata come me, soprattutto quando te lo ordinano (tipo in aeroporto) è sempre un'esperienza esaltante. Saltano fuori cose che pensavi di non avere mai posseduto, foglietti volanti con numeri di telefono che, tanto, non avresti mai messo in rubrica. Perché il disordinato sarà pure artista, ma non è scemo e ha grandi capacità di discernimento. Non ha bisogno di pensare e poi agire, fa entrambe le cose contemporaneamente, col disordine. Quindi il disordine è uno strumento, serve per agire più in fretta, per essere subito pronti e per godere della libertà di "lo lascio dove mi pare", "lo metto apposto dopo". L'ordine schiavizza, al contrario. Limita il raggio di azione, inibisce la fantasia. Richiede rigore e gusto estetico geometrico, consapevolezza e certezza: l'ordine è la virtù dei mediocri. Il disordinato non ha certezze, o meglio, è vaccinato contro le incertezze. Gode, però, di numerose possibilità di combinazione. Un libro può stare: sul comodino, per terra ai piedi del comodino, sopra l'abat-jour, sotto al cuscino, sotto al letto, ai piedi del letto, sopra il tappeto, sotto al tappeto, sulla poltrona, sotto la tazzina del caffè. Dov'è il libro? Il libro è. Questo interessa al disordinato: c'è. Il dove è irrilevante, non importa, tanto lo si trova. La certezza è nell'esistenza di un qualcosa, non nella sua localizzazione o nella sua posizione. Basterebbe vedere come disfa la valigia un disordinato, per capire. Nel farla siamo quasi tutti ordinati, perché è la maledetta valigia che ci costringe ad esserlo, altrimenti non entrerebbe niente ed i vestiti arriverebbero a destinazione pieni di anomale plissettature e sarebbe un vero guaio. Ma quando la si disfa, esce fuori tutta la nostra personalità. Il pigro disordinato, non si scomoda neanche: razzola con la valigia aperta, a volte addirittura semichiusa. Il disordinato attivo, invece, la disfa ma crea una baraonda. Niente o poco, finisce per entrare nell'armadio. Vengono monopolizzati tutti i punti di appoggio, e se ne creano pure di originali (le porte e gli specchi per appendere i vestiti) pur di non mettere tutto apposto nell'armadio. L'armadio è il tallone di Achille di qualsiasi disordinato vero. Lo si odia perché solo a vederlo costringe all'ordine, e allora ci ribelliamo facendo dell'armadio, un vero e proprio contenitore del nostro disordine più spinto.
Posso aprire l'armadio?
Noooooooo!
Tutto ciò lungi dall'essere un'esaltazione del disordine, né una giustificazione al mio, ma vorrei solo ricordare che in ogni persona simile a me c'è la propensione a pensare sempre, costantemente, che esista qualcosa di più importante, o di più meritevole, alla quale dedicare il proprio tempo. Il disordinato forse è un ottimista poco consapevole di esserlo, o molto, dipende dal tipo di disordine, perché non tutti sono uguali.
Gli ordinati ci servono per stabilire equilibri, ma anche per farci star male. Ammettiamolo, quando entriamo a casa di un super ordinato, non stiamo tanto bene. Il disagio sta nel confronto e nell'impossibilità di muoversi con disinvoltura. L'ordine inibisce, il disordine accoglie.

Frasi famose.

È affascinante questo tuo disordine, mi piace, è naïf, sei tu, proprio.
(dopo due mesi)
...e poi sai cosa?
No, cosa?
Sei una disordinata del cazzo!
(relazione lampo del 2001)

Se non levi i libri dal pavimento e i vestiti dalla scrivania, mi spieghi come si fa a pulire ed a spolverare?
Li sposto dalla scrivania alla sedia, allora.
E i libri?
Li metto apposto velocemente.
Se non lo fai entro un'ora, sappi che sui cartoni alla stazione si dorme discretamente. Anche la mensa, non è male.
(io e mia madre, dal 1987 al 1999)

Non credi che dovresti eliminare qualche file o cartella, o per lo meno, mettere ordine tra i documenti? E che ne dici di creare qualche cartella compressa e magari di fare un backup?
(il disordine virtuale)

Originale la tua scrivania...è piena di cose, di oggetti, di di di...
Disordine?

(collega norvegese, 2013)

Vede, lei deve sempre, come regola di vita, separare i documenti dalle carte di credito e dai soldi. Farebbe meglio e mettere il passaporto e tutti i documenti a parte, perché altrimenti rischia che le accada come è successo, e cioè che perda tutto, o che le rubino tutto, in un colpo solo.
Come scusi? Ero distratta.
Lasciamo perdere...
(io e l'agente di polizia a Londra, 2014)

Nonna, stanotte posso dormire nella camera del nonno? Così mi sembra di averlo ancora vicino a me, e di sentire la sua presenza, e...
Ma lascia stare questi inutili sentimentalismi! La ridurresti una piccola Waterloo e tuo nonno se la prenderebbe con me facendomi crepare solo per il gusto di sgridarmi dal vivo.
(mia nonna, estate 2014)

La vita con Nicole è meravigliosa. Cinquanta percento di gioie, e cinquanta percento di tempo buttato via per cercare le chiavi della macchina.
(una persona che mi vuole bene)

Il tuo problema non è il quando. Non è neanche il come, né tanto meno il perché. Il tuo problema è sempre stato il dove.
(mio fratello)

(il disordine nella foto sopra, è tutto mio)


mercoledì 27 agosto 2014

Il rimpianto in espansione



Mentre corro dietro ai miei bambini al Parc de la Grange di Ginevra, mi sento chiamare. È Anne, una mia ex compagna di classe dei tempi delle medie. Anne è una ragazza coreana adottata da una famiglia italiana che a Ginevra si occupava di commercio del caffè. Ha un fratello, indiano, anche lui adottato. I genitori erano già abbastanza anziani ai tempi delle nostre abbuffate all'ora del tè; sono morti entrambi diversi anni fa, mi racconta.
Anne a dodici anni era una ragazza paffutella, complessata e introversa. Si era legata a me in modo quasi ossessivo, ma io preferivo altre compagnie e altri interessi. Ogni tanto passavamo un pomeriggio chiuse in camera mia, nel quale parlavo soprattutto io. A quei tempi la mia famiglia ed io vivevamo in Route de Chêne, proprio davanti alla scuola Internazionale. Non dovevo far altro che attraversare la strada. E anche Anne, per venire a casa mia dopo la scuola, sapeva che non doveva fare altro che attraversare la strada. Eravamo in classe insieme, ma avevamo orari diversi perché io avevo scelto di fare latino e finivo un'ora dopo. Trovavo Anne fuori dal portone del palazzo ad aspettarmi; stava un'ora là, ferma, in piedi, con la stessa pazienza e attenzione di un ragno sulla tela. Dopo la scuola avevo lezione di pianoforte, o di danza o di equitazione, lei lo sapeva. Dovevo solo passare da casa a lasciare lo zaino, ma nonostante ciò, mi aspettava, saliva in casa con me, si sedeva sul mio letto e aspettava, in silenzio, che io mi facessi i fatti miei per poi uscire di casa di nuovo insieme a me. Spazientita, la lasciavo alla fermata del 12 (il tram più gettonato di Ginevra) promettendole una merenda il giorno dopo, e lei sottolineava "mi raccomando, all'ora del tè!".
Papà ma l'ora del tè, esattamente, qual è?
Non avevamo tradizioni di merende all'ora del tè, a casa mia. A pensarci bene era proprio il concetto di merenda ad esserci tradizionalmente sconosciuto. Mio fratello all'ipotetica ora della merenda era sempre a casa di qualcuna a pomiciare studiare; io non c'ero mai, i miei genitori erano a lavoro, forse solo Rif, il nostro pastore tedesco, faceva merenda all'ora del tè.
Una volta scoperto che l'ora del tè era verso le cinque, Anne arrivò alle quattro e un quarto, quando ancora io non ero uscita da scuola. Quel pomeriggio Mutter era a casa e, stranamente, anche mio fratello. Avevo dato "ordine" di preparare una merenda vera. Anne passò due ore a mangiare e a ridere quasi contenta, a parlare della mia migliore amica (Teresa, una ragazza mezza spagnola e mezza belga, di una bellezza abbacinante) e a descrivermi un intervento chirurgico per "aprire" gli occhi a mandorla. Gli occhi di Anne erano veramente due fessure, ed io sapevo che erano la causa dei suoi problemi pre-adolescenziali, ma la trovavo una motivazione sgonfia, non turgida come la mia che credevo di essere totalmente anormale. La mia anormalità consisteva nel passare le ore, isolandomi, a pensare a cose alle quali non pensava mai nessuno, tipo fare i massaggi alle falangi di Glenn Gould o a diventare un mimo. Credevo che diventando mimo la mia strada verso la carriera di attrice mi si sarebbe aperta come un portone automatico, o come il Mar Rosso a Mosè. L'idea mi era venuta perché il mio ragazzo, che faceva il dj a tutte le feste della scuola, mi aveva detto che la mimica rivela il talento che le persone hanno dentro, e dato che ero parecchio innamorata, questa cosa mi era sembrata una cacchiata mondiale. L'avevo modificata, evoluta a modo mio, seguendo ragionamenti consecutivi personali e logici che è inutile che spieghi.
La fine delle merende con Anne, arrivò quando dopo la terza media i suoi genitori scelsero di mandarla nel settore scolastico anglofono, mentre io rimasi in quello francofono.
Anne adesso mi chiama, sono passati vent'anni. Non ho avuto neanche un attimo di esitazione, l'ho riconosciuta subito. Il suo italiano è peggiorato ed i suoi occhi sono più aperti. Forse l'avrei preferita con l'italiano migliorato e gli occhi ancora chiusi nel suo bellissimo mistero orientale. L'assenza dello sguardo, mi manca. Il doverlo immaginare, mi manca.
Mi racconta che lavora all'UNICEF, che ha due bambini. Io le spiego che mi sono, non volendo, ritrovata nello stesso ambiente scolastico internazionale dal quale ero partita. Lei si ricorda del tè e dei miei armadi a muro bianchi, sui quali attaccavo i poster dei Clash. Io le confesso che non ero normale e che sono rimasta com'ero. Lei mi risponde "Cara, si vede!".

Si vede da cosa?

Tornare a lavorare a pienissimi regimi con novità da assimilare e organizzare, non è esattamente uno choc; soprattutto quando ti svegli la mattina sotto un cielo grigio, carico di pesantissime nuvole anomale autunnali che si dissolvono quasi sempre verso l'ora della pausa pranzo, lasciando il posto ad un sole troppo pallido per essere agosto, ma che ti permette di godere a pieno della bellezza della città.
Stamattina è successa una cosa. Penso ad Anne. L'ho incontrata il giorno di ferragosto alle dieci del mattino, e già alle dieci e mezzo non ci pensavo più: mi volevo proteggere. Perché ci penso? Scrivo di Anne, qui sopra, durante la pausa pranzo. Le finestre della memoria arieggiano un presente completamente diverso e complesso. Io sono momentaneamente in cima alla stratificazione della vita, dopo questi attimi se ne aggiungeranno altri, ed altri ancora, e raggiungere il nucleo sarà ancora più difficile. Ci vorranno, forse, tante inattese Anne a chiamarmi.
Mentre scrivo il mio collega mi guarda. La sala professori è deserta, perché nella pausa pranzo tutti mangiano. Tutti tranne me, che ormai ho smesso, e il mio collega che sta seguendo una dieta secondo la quale si scofana il mondo intero a colazione, e poi se ne riparla a cena. Perché mi guarda?
- Perché mi guardi?
- Cazzo sei pallidissima
- Ah
- Ma stai bene?
- Benone!
- No, tu stai male.
- Va bene, sto male.
- Ma la pressione te la misuri mai?
- Misuratela tu!
- Andiamo, su.
- Andiamo dove?
- Infermeria, c'è l'apparecchio e te la misuro. Guarda che tu stai male...
Dopo mezzora di manovre che mi massacrano l'avambraccio, l'esperto "infermiere" sentenzia:
- Tu STAI MORENDO, non hai pressione
Comincio, in effetti, a sentirmi un po' male. Come risucchiata da uno strano vortice di allucinazioni, mi ritrovo nel giro di mezz'ora al pronto soccorso dell'ospedale. Sento il mio collega parlottare con un'infermiera:
- No no, è una mia collega...ha 70 di massima, l'ho misurata io...no no, sicuro, la so misurare...no no, lei dice di stare bene, però... no no, aspettiamo, certo...
Poi a passi giganti e concitati viene verso di me:
- Tranquilla, tra un po' ti visitano...COME STAI??
- Sto tranquilla.
- A chi telefoni?? Non ti sforzare! Vuoi qualcosa da mangiare? Vuoi un tè? Vuoi...
- Non voglio niente, stai calmo, perdio!
Dopo circa un'ora tocca a me, prima di una suora con la febbre a 39 che sinceramente sembra passarsela peggio.
Entro in un ambulatorio e vedo un camice girato di spalle che mi dice prego prego. Quando mi dicono prego prego non so mai cosa fare.
- Guardi, io sto bene, sul serio. Forse il mio amico ha sbagliato a misurare la pressione...
- Non si preoccupi, ora verifichiamo tutto, prego prego.
Il camice continua rimanere in piedi girato di spalle con dei fogli in mano, ogni tanto si gratta la testa, poi rimette le mani sui fogli. Finalmente si gira, sempre con lo sguardo puntato sui fogli.
- Si sdrai
Dove? Per terra? Mi guardo intorno.
- Prego prego
- Cosa?
- Ah scusi!
Apre una tendina tipo doccia che svela un lettino. Adesso ho capito, prego prego.
Appoggia i fogli su una sedia, ovviamente cascano tutti per terra. Il dottor Pregoprego, si accovaccia imprecando e raccogliendo i fogli mi dice:
- Gravidanze? No, eh?
- Sì, due.
- Due? Come...
- Ho due figli.
- Ah, ma no! Intendevo, non sarà mica incinta?
Il dottor Pregoprego fa una sorta di rapida anamnesi, poi finalmente mi ausculta e mi misura la pressione.
- Beh, bassina questa pressione...mmmmh, anemica?
Domanda, mentre mi guarda l'interno degli occhi.
- Non lo so, non credo.
- Sembrerebbe anemica. Facciamo analisi. Così vediamo pure se è incinta.
- Prego prego.
- Lei non è italiana italiana, vero?
- Non proprio, perché influisce sulla pressione la mia nazionalità?
- No ahahah, ma sa cosa le dico? Che le donne tipo lei è normale che abbiano un po' di pressione bassa.
- Tipo me?
- Sì; lavoro, vita stressante, viaggi, figli...
- Nazionalità...
- No, ahahah! Simpatica!
- Stavo pensando ad Anne e il mio collega mi ha visto pallida. Tutto qui. Mi spiace farle perdere tempo, fuori c'è una suora che sta malissimo. Io sto bene, mi mandi via.
- Dopo aver visto le analisi la mando via, non si preoccupi.

Le mie analisi rivelano un po' di anemia, il dottor Pregoprego mi richiama dentro l'ambulatorio. Mi fa sedere, mi dice che devo riposare, mi prescrive un integratore di ferro e magnesio.

Anne invece è gravemente malata.

Io ed i miei integratori ce ne torniamo a lavoro.

La mia finestra sul passato si richiude piano piano, lasciando serrato, qui, un presente pieno di rimpianti per i pomeriggi mancati con Anne all'ora del tè.


Ogni stella soggetta al collasso gravitazionale deve terminare in una singolarità. Rovesciando il tempo, ogni universo in espansione è cominciato con una singolarità.
Dal Big Bang ai buchi neri, Stephen Hawking

domenica 20 luglio 2014

Il post dell'ombrellone (1)



Come tutti gli anni la Leblanc asfissia con le sue leggere critiche alla fauna estiva dell'arcipelago maddalenino.
Primo breve compendio di frasi, dialoghi e esclamazioni udite finora. (La sottoscritta ha preso nota con l'iPhone durante le osservazioni e le varie chiacchierate, quindi il post risulterà una sterile trascrizione, roba da giornalisti dilettanti).

Romano comune
 - Ch'hai mangiato tesò?
 - Un panino al prosciutto
 - No allora devi aspettare TRE ORE che sennò te se blocca la digestione

Romano coatto
- NOOOOO CHE STAIAFFA'!! ER BAGNO??? Ahò chettesei magnato tesò?
- Gnente solo un panino ar prosiutto, a pizza rossa, du banane, un cornetto, er frappppà à la fraggola...
- MACCHESSEISCEMO??? Fori dall'acqua, sverto, CHEVVOI MORI'??

Coppia tedesca con figli pestiferi
- wwxzwuuufff, tvwzzew+tehhnba, uberallenzzzetivnancs!! (bambini in acqua mentre spruzzano e tirano sabbia bagnata pesante sulle rocce poste a cinque metri di distanza)
- stop it, please (io)
- WEISSTESZZACAZZEN TETZSUNAMIANEM ALLEEINSWEIN!!!! (bambini in acqua che continuano a spruzzare e a tirare sabbia bagnata pesante sulle rocce a sei metri di distanza guardandomi in cagnesco)
- cadtsoneennn strassenbaubu einswzeticassen!! (padre che interviene)
- thanks (io)
- komo ti chiamo bella? (padre di bambini odiosi che ce sta a provà mentre la moglie con la pelle color ciclamino alta due metri e venti sta mettendo la muta al quarto figlio)

Milanese imbruttito
- Se non avrebbero il mare bello non ci venisse nessuno.

Figo muto che s'abbronza
- psss psssssss pssssss pssssssss (rumore spruzzino abbronzante)

dopo cinque minuti

- blop blummmmm blop blop sclap sclap (rumore crema marrone filtro solare zero che esce dal flacone e che viene spalmata sugli addominali color terracotta mesopotamica)

- tap tap tap tap (rumore piede che batte il tempo della musica in cuffia)

- scrac scrac (s'è alzato per farsi il bagno)

- ciaf ciaf (nuota malissimo, spruzzando tutti)

- shhhhaffff shhhhafffff shafffffffff (esce dall'acqua con falcate plastiche e sguardo tenebroso dopo trentasei secondi di pseudo nuotata )

- dlin dlin dlin dlin (suona il telefono, guarda chi è e rifiuta la chiamata)

- psss pssssss pssssssss psssssss (rumore spruzzino abbronzante)

mai un rumore delle pagine di un libro

La dottoressa della mutua
Io - Cosa fai nella vita?
Lei - Io, la mamma!
Io - Ah.
Lei - che hai sulla spalla?
Io - Che ho?
Lei - fai vedere...mmmh, zanzara....
Io - Ah, va beh
Lei - no, guarda che ti può venire un'infezione!
Io - ellapeppa!
Lei - devi mettere Castomen, pomata, non crema. Poi prendere Trocàderò, in bustine, gusto arancia che fragola è un tantino aspro. Due volte al giorno, sono integratori di zinco magnesio e stronzio, che rafforzano le difese immunitarie. Per prevenire: Tombasec, unguento, la sera, quando senti che stanno per arrivare
Io - cosa?
lei - Le zanzare!

Mamme di professione, le riconosci.


L'ora Cracca
Verso mezzogiorno e mezzo, quando un certo languorino...basta dare il là, tipo: buone le albicocche qui in Sardegna, che si scatena la ricetta selvaggia. Ieri c'era il simposio sulle cozze.
- Come la fai? A zuppa?
- Si ma checcemetti, l'aglio, il vino?
- E perché una bella impepata come ci sta?
- con due pomodorini
- Ma poi devi abbrustolire il pane, con la strisciata o senza?
- No che poi qua sono sporche
- Si ma come le pulisci?
- Io c'ho la donna
- in che senso?
- La cameriera, le pulisce lei

Poveri e ricchi
- che l'hai visto quello iòt?
- perché quel catamarano?
- non pagano le tasse
- nono sono russi
- ora tutti russi o evasori
- verissimo! sacrosanto
- non si vive più
- stiamo messi peggio della Grecia
- esattamente!
- che fai stasera? aperitivo?
- facciamo un giro a Porto Rotondo, io e la Susi
- ma in villa ci tornate quando?
- uff cheppalle, mai! il giardiniere deve finire il prato, ancora!




martedì 8 luglio 2014

Feel at home



Le scale che portano al piano superiore scricchiolano come il il parquet degli appartamenti nella Strasburgo vecchia.
E' molto tardi, credo le tre di notte; ho lasciato il mio orologio in Francia, ho trovato il mio dolore in Inghilterra.
L'orologio sul camino è fermo da anni, è antico, dorato con la base in mogano. Per caricarlo c'è una grossa chiave da inserire nel foro dietro. Ma è tutto inutile, le lancette non si muovono. Anche i martelletti che ogni ora dovrebbero suonare una melodia diversa rimangono quasi immobili; vibrano lievemente come se provassero a cantare di nuovo ed un peso inesplicabile li bloccasse. Sollevo la campana di vetro, provo a muoverli, ad aiutarli, ma non serve. Nessuno si è mai preso la briga di portarlo da un orologiaio. Ha il fascino del tempo che si arresta.
Saranno le tre e mezza di notte, forse. Il mio telefono è scarico, ho voglia di scrivere, non ho il computer. Non ho l'ordinateur. Entro nello studio, provo ad accendere quello di mio suocero. Ci sono le prese staccate, l'ultimo ad usarlo è stato lui nel 2011, qualche giorno prima di salutarci per sempre. L'ordinateur è stato spolverato tutti i giorni, si vede. Nessuno ha mai provato a riaccenderlo. Nessuno ha controllato le ultime email, le foto, gli scritti, le note o i fogli Excel. Nessuno ha avuto il coraggio di riaccendere una parte di vita, anche se digitale. Non sarò io a mancare il rispetto, il riserbo. Quindi cerco dei fogli di carta, un blocco, una penna, una matita, qualcosa per scrivere.
Sono sicura di trovare quello che cerco dentro ai cassetti, ma non posso aprirli. Non mi appartengono. Io so che il proprietario della scrivania avrebbe voluto che li aprissi, anzi, mi avrebbe detto "feel at home". Mi sentivo a casa con lui.
Mi sento a casa tutte le volte che trovo l'empatia con qualcuno. La mia dimora sono le persone. Forse lo sono sempre state. Quando ne perdo qualcuna mi sento veramente una nomade o un clochard che prova a sopravvivere raggomitolandosi in angoli freddi e bui.
Sopra una pila di volumi di diritto vedo dei fogli dentro ad un inserto azzurro trasparente. Sembrano bianchi. Ne sfilo uno: ho trovato il mio tesoro, stanotte. Un gioiello, un foglio bianco. Profuma di pipa, ha l'odore del proprietario.
Ti riempirò di vita, sarò il tuo orologiaio.

Benjamin, we're meant to lose the people we love. How else would we know how important they are to us?

Some people, were born to sit by a river. Some get struck by lightning. Some have an ear for music. Some are artists. Some swim. Some know buttons. Some know Shakespeare. Some are mothers.

And some people, dance.

The curious case of  Benjamin Botton, David Fincher

lunedì 16 giugno 2014

L'acquaio




In una bellissima scena de I Ponti Di Madison County, Robert dice a Francesca: "Quando penso al perché faccio fotografie, l'unica ragione che mi viene in mente è che questo lavoro doveva portarmi qui; è come se tutto quello che ho fatto in vita mia io lo abbia fatto solo per arrivare qui da te.".
Guido in una calda giornata francese verso Chantilly, con mamma Lisbet vicino a me.
Quando avrai quarant'anni comincerai a fare bilanci, e capirai se sei felice oppure no, mi dice Lisbet. Io i bilanci li ho già fatti, forse perché sono abbastanza vecchia o forse perché li facevo anche a dieci anni, quando cercavo di capire quali e dove fossero i miei amici, in quale delle città in cui eravamo stati; in quale nazione mio padre avrebbe deciso di fermarsi rimanendo il tempo necessario, consentendomi di farmi amici per la pelle, di quel tipo che non si stacca più. Amici tatuati sul cuore.
Quando mi chiedo perché mi sposto sempre in modo irrequieto, l'unica ragione che mi viene in mente è perché ancora sto cercando la certezza dei legami affettivi.
La mano di Lisbet si posa sui miei capelli, me li sposta dal viso, li mette ordinatamente dietro l'orecchio destro. I finestrini sono aperti, ti potrebbero andare davanti gli occhi mentre guidi. Il gesto affettuoso di una madre, come se tra noi fosse sempre stato così, come se i  miei capelli al vento avessero sempre avuto bisogno della sua mano, del suo profumo alle rose, del suo silenzio così pieno di parole ancora da dire. Il futuro nei nostri silenzi è pieno della certezza di avere ancora moltissime cose da dirsi.
Quando penso al perché mi sposto così, l'unica ragione che mi viene in mente è perché questi lavori dovevano portarmi qui, in questa giornata di giugno, in macchina con Lisbet, verso uno dei luoghi della mia infanzia. Uno di quei posti da gita domenicale, da corse nel parco, da ginocchi sbucciati, da gelato da prendere dopo aver visto il museo, da dormita in macchina al rientro a Parigi, da profumo di casa e di parquet dopo una giornata di sole e vento; da potage troppo caldo, da vasca da bagno piena di schiuma al talco, da fumetti di Tintin letti prima di addormentarsi.
Non mi piace l'aria condizionata dal climatizzatore, c'è rumore di vento e spifferi, alla radio Stromae. Cambio stazione e ritrovo Stromae. Parlo con mia madre di Stromae. Ci troviamo d'accordo su Stromae.
Il parco è bello, più dei giardini all'italiana di Versaiiles. Non c'è ordine, ma devastante passione bucolica: il disordine dei sensi.
Nei miei ricordi era tutto molto più grande, come se giocassi in uno spazio abbastanza sufficiente da costruire una regione, e metterci dentro province, villaggi, strade, carrozze e damine impacciate incapaci di camminare a causa dei vestiti ingombranti, con sotto corpetti e stecche di balena. Costringevo mio fratello a fare il principe. Lui era contrario, ma non importava; con la fantasia lo facevo principe lo stesso, e frasi tipo "papà ho sete" a "quando torniamo a casa?", le trasformavo in "la mia regale gola ha bisogno di refrigerio" e "quando ci ritiriamo nelle nostre stanze, Sire?".
Chiedo a mia madre perché non lavi mai i piatti, come mai li accumuli uno sull'altro nell'acquaio giorno dopo giorno, fino a che qualcuno non provveda. In genere è Kaddour, il suo compagno, che mosso a compassione indossa il grembiule con la scritta nera su sfondo rosa stinto I Love Sicily (residuato bellico di un viaggio di ventitré anni fa) e borbottando un putain dopo l'altro, intervallato da qualche merde perché il detersivo è sempre poco, tira su le maniche della camicia e lava tutto.
La sua risposta è laconica: perché dovrei farlo?
Sto imparando ad accettare le persone per quello che sono. Non molto tempo fa provavo a cambiarle con i mezzi persuasivi che avevo a disposizione, ottenendo come risultato l'opposto: si allontanavano ancora di più da ciò che, secondo le mie aspettative, rappresentava il mio ideale di persona giusta. Ho capito, infine, che non sono le persone ad essere sbagliate, ma le aspettative. Frasi tipo "mi hai deluso" non le ho più dette né pensate, forse perché sono diventata talmente piena di me da non volere mai ammettere di essermi creata aspettative che non mi potevo permettere.
Nonostante tutto, però, illustro a mia madre le gioie di una lavastoviglie e ridiamo insieme pensando a quelle bravissime signore che ricoprono il piano cottura con fogli d'alluminio per evitare che si sporchi. Così quando moriranno lasceranno la casa pulita dice Lisbet. Esatto, e i letti rifatti.
Torniamo verso Parigi in silenzio, questa volta i finestrini sono chiusi, l'aria è quasi fredda, evitiamo la Stromae-radio. Perché in ogni istante della mia vita provo sempre a ficcare qualche citazione cinematografica? In questo momento, ad esempio, ci starebbe benissimo quella di Mia Wallace in Pulp Fiction. Ritenersi soddisfatti nei silenzi è, probabilmente, la più alta concezione di rapporto perfetto. O forse è semplice sintonia? Conosco silenzi pesanti, assordanti, che ti devastano, che ti fanno desiderare una terza persona per poterli riempire di qualcosa, non importa cosa: n'importe quoi.

N'importe quoi
in francese è come il prezzemolo, lo inserisci ovunque nel parlato. E sta bene con tutto, come il tubino nero, è adatto ad ogni occasione e ad ogni situazione. Oserei dire che trattasi quasi di intercalare, se non ci fossero il bon bah e il putain (per i più esigenti abbiamo pure bon bah putain eeeh) che forse battono addirittura il n'importe quoi.

(nella foto sopra il figlio di Kaddour troppo alto per l'acquaio di Lisbet)



L'acquaio di Lisbet nel video di Stromae




La musica che mi piacerebbe alla radio, una radio-AIR

giovedì 15 maggio 2014

Mi perdo cose



- Pronto, parlo con la signora N.L?
- Sì, chi parla?
- Qui è il commissariato di Polizia di Firenze. La volevo informare che sono stati ritrovati i suoi documenti e il portafoglio. Ci sono stati inviati dal Consolato a Londra.
- Wow... beh non importa, nel frattempo ho rifatto tutto essendo passati due mesi.
- Lei deve venire comunque a ritirare i vecchi documenti.
- Va bene.
- I passaporti li potrà ritirare da domani in questura, la patente in prefettura e le carte di credito al comando dei vigili.
- È uno scherzo, dai...mi avete smazzato tutto come nel burraco?
- Eh mi spiace ma è così.

Prima tappa: Prefettura.
- Scusi, l'ufficio patenti?
Un signore in giacca blu, chiuso dentro una sorta di serra con gli infissi in alluminio dorato, mi parla (mentre tiene la cornetta del telefono sotto al mento) attraverso una fessura talmente bassa che si deve ingobbire per rispondermi.
- Stanza numero 38 terzo piano, segue il corridoio la penultima porta a destra, oppure anche la terzultima porta a sinistra girato l'angolo, in fondo, dopo le scale.
- Mi sono già persa, va beh, ci provo. Se non mi vede tornare chiami i vigili del fuoco, che sono gli unici dai quali non devo andare, stamattina.
Mi guarda con circospezione e poi:
- Nandoooooo! (rivolgendosi al tizio appoggiato al vetro)
- Oooooh (risponde Nando annoiato)
- E s'è sbaglia'o mestiere io e te, i pompieri si doveva fare
- E che 'un lo so?

In ascensore un tipo molto abbronzato e eccessivamente dopobarbato:
- Dove va lei?
- Terzo piano, stanza numero 38 a fare la caccia al tesoro.
- Ah vado anche io al terzo, pensi un po'!
- Bene, allora premiamo il pulsante insieme!
Al terzo piano percorro corridoi quasi bui pieni di porte che socchiudono chiacchiericci, risatine soffocate e per miracoloso istinto riesco a trovare la stanza indicatomi. La porta è aperta, busso lo stesso. Due sepolti vivi dalle scartoffie fanno capolino da quelli che sembrano essere dei Commodore 64.
- Permesso?
- Sgruntbbof.....bofbof...gnesgrut.... siii siii, avaaaanti...
- Buongiorno, dovrei ritirare le mie patenti di guida.
- Ah ah. Quante ne ha?
- Ce ne dovrebbero essere due, una europea e una norvegese.
Il volto di uno dei due si riempie di punti interrogativi, le sopracciglia si aggrottano; poi l'attaccatura dei capelli si allenta, ha un'illuminazione e apre un cassetto dietro la scrivania, razzola per dieci minuti buoni tra le scartoffie.
- ..hem, si sieda si sieda, intanto...
- Sarà una cosa lunga? Dovrei rientrare a lavoro
- Bah...io qui non trovo..come ha detto che si chiama?
- Leblanc
- Ma tutto attaccato?
- Sì
- Leblòn come me l'ha detto lei?
- No, si scrive Leblanc..scusi: Livorno, Empoli, Bari, Livorno, Ancona, Napoli, Catanzaro
- Aaah, Lèblànc!
- Sì.
- ...non trovo niente: motivo del ritiro?
- Non me l'hanno ritirata, l'ho persa a Londra e la polizia mi ha detto che...
- Aaaah ma se l'ha persa allora deve andare in questura! Cosa ci fa qui?
- Mi andava di visitare la stanza 38.
- Guardi, lei deve andare in via della Fortezza o in Via D'Aosta, in questura.
- Ma ne è sicuro?
- Qui non c'è, dev'essere ferma in questura. Vada, prima che chiudano gli sportelli al pubblico!
- Telefoniamo, prima?
- No, sono sicurissimo, vada!

Ripercorro i corridoi bui e angusti, prendo l'ascensore, esco fuori dalla Prefettura e telefono in Questura.
- Scusi, un'informazione (racconto l'accaduto)
- Signora lei deve andare in Prefettura, la patente si trova sicuramente là.

Rientro in Prefettura, nel frattempo il tipo abbronzato e dopobarbato mi incrocia all'apertura dell'ascensore e mi saluta chiedendomi 'caffeino?'.
Stanza 38, ri-busso, ri- chiedo permesso.
- Sono quella di prima...
- E lo vedo (non alza gli occhi dalle scartoffie)
- Ho telefonato al.. (non mi fa finire la frase)
- Senta facciamo una cosa: lei vada a fare le sue cose, intanto io cerco LE sue patenti (sorrisetto sardonico) e ci vediamo qui, facciamo fra...tre quarti d'ora?
- Quali cose?
- Che ne so, la spesa, le commissioni...le sue cose!
- La mia commissione era venire qui per riprendermi una patente (o due) la cui utilità è pari a zero dal momento che le ho riavute entrambe nel giro di pochi giorni dopo che le ho perse. Sono qua perché la Polizia me l'ha gentilmente ordinato, altrimenti sarei a lavorare o a fare altro che non la riguarda, comprese le mie cose. Quindi aspetto qui, piantata qui, non mi muovo.

Il mio piglio da acidona suscita l'effetto voluto. Il tipo si sistema gli occhiali sul naso, si accomoda dritto sulla sedia dietro la scrivania e comincia a digitare fiumi di parole sul pc. Ogni tanto clicca con veemenza sul tasto invio, forse nella speranza che esca fuori dal monitor la soluzione, come nei giochini escape. Si piega e riapre il cassetto delle scartoffie; fruga di nuovo, scartabella, fa vibrare uno cartellina carica di fogli e fogliettini, con nomi, denunce, indirizzi...
- Come ha detto che si chiama?
Ripeto il mio cognome, spazientita e sospirante come fossi in menopausa. Lo pronuncio all'italiana, non voglio rifare lo spelling, lo costringo all'uso dell'attenzione.
Si alza dicendo che va un attimo a controllare. Sta via più di dieci minuti. Io nel frattempo lo immagino nella stanza delle carte, affogato da mille pratiche burocratiche, da centinaia di permessi di guida ritirati (o ritrovati). Oppure alla macchinetta del caffè, mentre maledice la rompicoglioni di origine francese: ci mancava solo questa gallica nevrastenica, come se non avessi già abbastanza cose da fare!
Torna con in mano una cartella giallognola sgualcita. Non dice una parola, si risiede e si sistema gli occhiali. Nel frattempo io riesco a leggere l'etichetta col mio nome sull'incartamento: ha risolto l'escape che mi permetterà di uscire.
- Dunque, Signora Leblòòònk...
- Sì?
- Mi metta una firma qua..una qua..una in fondo a questa pagina...una di qua..un'altra dietro, grazie.
E segna con ben due crocette ogni spazio dove c'è scritto firma.
- Gentilmente mi dia un documento...grazie, vado a fare una fotocopia.
Esce di nuovo e sparisce per altri 10 minuti. Chiedo al collega:
- Ma dove la tenete la fotocopiatrice?
- No no, è qui dietro, forse era occupata...
- Ammazza
- Sa, a quest'ora c'è sempre un gran casino
Guardo l'orologio, sono le 11 e 15. L'ora di punta in Prefettura, non ci andate.
Si affaccia un ragazzo rasta con un casco sotto al braccio, prova a dire qualcosa ma il tipo lo blocca subito
- No scusa, per i patentini stanza numero...
- Ma io sarei qui per la patente della macchina
- Ah! Ti avevo visto con il casco
- Appunto, sono venuto in scooter perché non ho la patente per guidare
Rido. Non ne posso fare a meno. Il ragazzo rasta mi fa l'occhiolino e poi dice:
- Fosse stato un test attitudinale col ca..volo che lo passavi, fratello!
Mi sento in un film di Fellini. Mi giro verso la finestra e guardo fuori, trattenendomi per non ridere.
Torna il mio uomo con le fotocopie dei documenti.
Si risiede, prende dei timbri che sbatte violentemente sui fogli sgualciti, mette delle firme poi tra sé dice:
- Oggi c'è un caldo boia
- Si sta bene..
Dico io, tentando di fare pace con lui, mentre mi riprendo le mie patenti che non servono più a niente.
Si sta bene, peccato che ora mi aspettino la Questura e i vigili.


Sabato mattina, Strasburgo. Devo rifare la Tessera Europea per l'assicurazione sanitaria mia e dei bambini.
Vado all'ufficio  amministrativo nel mio arrondissement, ogni circoscrizione cittadina ha il suo. In una città di un milione di abitanti, come Strasburgo, ce ne sono 10, la metà di Parigi. Entro nell'atrio, il pavimento in parquet è tirato a lucido e sulla destra svettano due bandiere, quella francese e quella europea.
La prima cosa che vedo: un pannello luminoso con tutte le indicazioni, io devo andare all'ufficio sanitario, piano terra.
Non ci sono porte, entro senza chiedere niente. L'impiegata si alza dalla scrivania per salutarmi, mi fa sedere, mi chiede i documenti. Osservo il vaso di fiori freschi, la solite bandiere alle spalle, una boule de neige con dentro la Cattedrale. Dopo cinque minuti mi consegna le tessere. Elargisce sorrisi, mi augura buona giornata con la solita cantilena francese. Nonostante Strasburgo sia una città 'di confine', la Marsigliese l'hanno inventata qui e sono (siamo) tanto francesi.
Esco fuori dall'edificio dai tetti spioventi, controllo la perfezione della facciate, i fiori alle ringhiere, la pulizia delle bandiere che svettano anche fuori.
Mi sono divertita più a Firenze, però.



Strasburgo è una 'ville libre' nella quale convivono pacificamente, da un millennio, tre religioni diverse e più culture. Non è un caso della mia vita, che sia Firenze che Strasburgo, abbiano dimostrato nel corso della storia la totale apertura e integrazione della cultura ebraica. È una città che ha vissuto la sofferenza durante i conflitti mondiali a causa della sua posizione geografica, ed essendo molte famiglie sia tedesche che francesi, i figli hanno visto madri e padri separati solo perché appartenenti a due nazioni diverse. I fratelli ebrei sono stati bruciati e sterminati; vicino sorge il campo di concentramento di Natzweiler-Struthof, nel quale trovarono la morte anche molti politici vittime del razzismo ideologico. Oltre a molti parenti, amici, conoscenti che hanno lottato per la resistenza.
Strasburgo è un luogo dove la storia dell'Università e della cultura affonda radici profonde, almeno quanto quelle di Firenze. Anche qui si avverte la crisi, i clochard portano nei loro sguardi tutto il male di vivere della nostra umanità e quel signore dagli occhi vitrei che m'ha fermato l'altro giorno alitandomi alcolicamente che sono méchante, cattiva, colpevole, aveva ragione. Però la dignità del cittadino, l'orgoglio, il senso di appartenenza traspare, trasuda energia da ogni luogo che rappresenta lo Stato; per dire a gran voce che c'è se hai bisogno, per te che sei europeo, non solo francese, strasburghese, alsaziano.
L'hanno imparato a loro spese che cosa vuol dire guadagnarsi e riconquistare la 'ville libre'; attraverso la morte, la sofferenza, la distruzione delle identità nazionali di intere famiglie,

Credo che all'Italia manchi la conquista (o la riconquista) della libertà che, come diceva Camus, non è altro che la possibilità di essere migliori.

Je pense et j’écris en français, mais je pleure en kabyle. - Jean Elmouhouv Amrouche


martedì 22 aprile 2014

Da Arundhati Roy a Tarantino; da Mad Men al mio trasloco, fino ai Ringo



Un po' di tempo fa una mia amica mi ha detto "quando leggo i tuoi post mi rilasso, quasi mi coccolo". A parte il fatto che la dichiarazione mi inquieta alquanto, io so, in fondo al mio cuore, perché accade: racconto cose facili e piccole. Potrei scrivere una poesia sulla cremina dei Ringo o un'ode all'involucro dei Mon Chéri. Quello che mi ha sempre colpito è l'infinita gamma di sensazioni provocate dalle inezie. Perché i massimi sistemi o i sentimenti con le lettere maiuscole, non mi suscitano niente. Un po' come quando vedo un bell'uomo, sarà anche un raro esempio di bellezza maschile assoluta, ma vuoi mettere la poesia celata in uno sguardo dato di sfuggita? In un bacio sognato e mai scambiato? In un soffio lieve di fantasia spazzata via dal tempo? Ma che sto a di'?
Io so che fra qualche anno, quando la gravosità dell'età fagociterà la mia leggerezza espressiva, mi dedicherò ad argomenti pesantissimi, quali la texture dei fondotinta e le qualità delle lozioni per il contorno degli occhi; ma fino ad allora il Dio delle piccole cose continuerà a catturare la mia attenzione e mi accenderà i sensi, mi illuminerà di immenso, mi trascinerà in un turbine di pensieri, spesso impossibili da esprimere.
Un esempio di cosa grande per la quale emozionarsi (e anche pomiciare), è sempre stato il Tramonto Sul Mare. Ma se ci fate caso, ormai è diventato merce da Instagram. Ce ne fosse uno che, davanti ad un Tramonto Sul Mare, si metta semplicemente a limonare. Sono tutti coi tablet o gli smartphone all'aria, proni nel catturare l'hd e a dargli l'effettino giusto che migliori i colori. Poi, dopo, forse, chissà, scapperà anche un bacio, un pensiero, un attimo di silenzio: ma prima la foto. Ormai il tramonto sul mare (colto anche dalla sottoscritta, mica parlo male degli altri, sto facendo autocritica) ha perso la sua valenza romantica, non frega più niente a nessuno, forse neanche a me. Quello che importa è condividere, uno dei verbi più usati nell'ultimo quinquennio.
Per fortuna però, oltre all'Amore, la Poesia, l'Arte, la Musica e il Tramonto Sul Mare, c'è la cremina dei Ringo. E quella non la puoi mettere su Instagram, perché è impossibile da tradurre in immagine: è una sensazione. Ed è scritta con la lettera minuscola, è una parola scema (cremina), neanche onomatopeica, impossibile da declamare con impostazione melodrammatica. E' insignificante perché è magrolina e duretta, non abbondante e voluttuosa come la Panna Montata. E' dolciastra, forse troppo. Si tira via con gli incisivi e poi si butta il biscotto, che (diciamola tutta) è trascurabile. Senza la cremina i Ringo sarebbero biscotti inutili, simili ad altre centinaia di migliaia di biscotti. E ne  ho incontrati di biscotti farciti, eccome se ne ho assaggiati! Ma nessuno ha la cremina dei Ringo.
Di quante cose scritte con la lettera maiuscola si può parlare così? Ma soprattutto, come rendere la cremina dei Ringo più morbida? Dandogli un attimo di microonde.
Un'altra parola da scrivere con la maiuscola è Trasloco. Ho visto persone entrare in depressione e accoccolarsi tremanti sulle scatole giurando di non farlo più; gente chiamare la ditta dei traslochi per un preventivo con la voce rotta dalla crisi nervosa e gli occhi fissi sul conto corrente; traslocatori alti due metri e larghi tre, coperti di tatuaggi, con le lattine di birra e le scatole dei Condom infilate nelle tasche dei jeans, inorridirsi come delle suore Domenicane dello Spirito Santo, davanti ad un materasso pieno di chiazze di dubbia origine. Io, che di traslochi ne ho fatti un numero non ben definito, so cosa vuol dire imballare una per una le ciotoline del servizio da 24 per il consommé. Quando mai uno invita una ventina di persone a casa per un consommé? In quale originale corto d'autore surrealista? Ma soprattutto, come si fa ad ingurgitare un consommé senza passare tutta la notte con il rubinetto dell'acqua infilato direttamente in trachea?
Davanti all'immensità di un Trasloco la mia scatola con sopra scritto in nero "Nicole Stuff" è, semplicemente, una piccola cosa. E' tale e quale da quattro traslochi a questa parte. E' iniziata a Londra, poi è tornata a Firenze, dopo ha transitato da Ginevra ed è ritornata a Firenze, per poi finire a Stavanger. Nicole Stuff è una scatola garbata, color zucchero di canna stinto, chiusa con un nastro adesivo trasparente. E' misurata per dimensioni e colore, ma è oltraggiosa per peso. E' un po' come me. Il bello di Nicole Stuff è il suo mistero. Nessuno ricorda cosa ci sia dentro (neanche io) e non è stata mai aperta da Londra 2007, quando nacque. Nicole Stuff ha visitato tutti i garage, le soffitte e le cantine delle case che ho abitato e dalle quali ho solo transitato. Ha fatto amicizia con ragni dal corpo minuscolo e dalle zampe chilometriche; è servita come base per appoggiarci altre scatole, valige, scarponi da trekking, passeggini e seggioloni.
Poco prima delle vacanze di Pasqua avevo preso una decisione epocale: Nicole Stuff questa volta sarebbe stata aperta; non avevo intenzione di portarla a Firenze di nuovo, chiusa e misteriosa. Questo mondo è un posto troppo piccolo per la valigetta di Pulp Fiction e per Nicole Stuff, una delle due deve essere svelata. Poi è accaduta una cosa, ho visto la prima puntata delle settima serie di Mad Men. Sì, ma che c'entra? Direte voi. C'entra, secondo la logica delle piccole cose.
C'è una citazione tarantiniana di quelle da sturbo (che a sua volta citava l'opening de Il Laureato). Donald Draper viene presentato come Jackie Brown nell'intro che trovate qui. Un valore aggiunto, simbolico, che accomuna il grande cinema ad una delle serie più belle mai viste. E allora mi sono detta: perché non rendere la mia vita ancora più cinematografica usando la scatola come fosse una citazione tarantiniana? Perché volere a tutti i costi spoetizzare, svelare, incidere con il bisturi della praticità, un simbolo come questo? Un legame tra me e la voglia di vivermi le piccole cose come se fossero massimi sistemi. Non è solo una scatola: fondamentale è inserire sempre un MacGuffin.
http://it.wikipedia.org/wiki/MacGuffin



Non aveva importanza che la storia fosse già iniziata, dal momento che il kathakali ha scoperto molto tempo fa che il segreto delle Grandi Storie è che esse non hanno segreti. Le Grandi Storie sono quelle che abbiamo già sentito e che vogliamo sentire di nuovo. Quelle in cui possiamo entrare da una parte qualunque e starci comodi. Non ci ingannano con trasalimenti e finali a sorpresa. Non ci sorprendono con l'imprevisto. Ci sono familiari come le case in cui abitiamo. Come l'odore della pelle del nostro amante. Sappiamo in anticipo come vanno a finire, eppure le seguiamo come se non lo sapessimo. Allo stesso modo in cui sappiamo che un giorno dovremo morire, ma viviamo come se non lo sapessimo.

Arundhati Roy - Il Dio delle Piccole Cose

mercoledì 9 aprile 2014

Norwegian Wood (This Bird Has Flown) - i due minuti abbondanti sono finiti



Era molto tempo fa quando entrai in camera di mio fratello e lo trovai a versare lacrime su Rubber Soul, mentre la puntina del giradischi batteva sull'ultima linea del vinile, insistendo su un capitolo chiuso, un amore finito. Non afferrai il momento topico e ricordo che mi disse "Ma cosa vuoi capire tu, di Norwegian Wood?". Io, con  il grembiule bianco della terza elementare, mi sentii inadeguata di fronte al suo complesso mondo adolescenziale. Se, oggi,  dovessi indicare il momento, uno solo, in cui è entrata la musica nella mia vita, credo che sceglierei questo: qualche giorno dopo, rubai il disco dei Beatles a mio fratello solo per capire cosa fosse Norwegian Wood, e lo misi nell'impianto di mio padre, soprannominato "la grande fedeltà".
Aveva ragione lui, non capivo. Perché piangere su una canzone un po' melliflua in 3/4? E cosa vogliono dire tutte quelle parole in inglese che non capisco?
A otto anni iniziò la mia attività di traduttrice di canzoni, perché Rubber Soul andava compreso, analizzato, sezionato: faceva emozionare mio fratello.

Avevo undici anni quando andai, con i miei genitori, in vacanza sui Fiordi. Era luglio, e ricordo che partii da Strasburgo con il broncio e un biglietto pieno zeppo di cuori di "addio" della mia migliore amica. Non mi andava di passare una settimana confinata in un buco norvegese da sola con i miei. Però nel lettore cd portatile (preistoria?) avevo Rubber Soul e durante le escursioni mi isolavo; finalmente riuscivo ad inumidire gli occhi su Norwegian Wood. Immaginavo che i mobili della canzone avessero lo stesso profumo di abete che mi circondava, respiravo a fondo e lo immaginavo mischiato all'odore del fumo. Avevo una gran voglia di vedere qualcuno dare fuoco a una delle tante case, o barche, per percepire come si possa sentire chi vuole chiudere, demolire, finire di navigare. Volevo lasciare quella breve vacanza sin dal primo giorno.

Perché mi avete fatto studiare pianoforte? Uno strumento fisso è complicato. Dovevate propormi il sitar.

Un giorno capii che il tipo con il quale uscivo era un emerito idiota. Lo capii perché attaccava allo specchietto retrovisore l'Arbre Magic alla colonia e perché durante la lezione di Botanica I mi afferrò improvvisamente i lobi delle orecchie e disse "chissà cosa vorrai sentirti dire, anima mia bestiale".
Scelsi un momento come un altro per dirgli che era meglio se finivamo qui, così, restando amici (?), ma lui non la prese benissimo. Gli feci sentire Norwegian Wood dicendogli "è tutto dentro questa canzone". Come risposta ebbi un "Cazzo, ma ti capisci da sola!". Aveva ragione. Nessuno, tranne me, poteva capire il mio viaggio dentro Norwegian Wood. Forse quella fu l'unica volta nella quale il tizio con il quale uscivo, si dimostrò meno idiota del solito. Ma ormai era tardi per tornare indietro. Erano passati i due minuti.

Quando, un paio di anni fa, ho avuto la certezza che la Norvegia mi avrebbe ospitato per un certo periodo, ripensando alla vacanza di tanti anni prima, ho preso il disco che mio fratello mi aveva infine regalato e con l'idea che niente nella mia vita avviene per caso, ho riascoltato Norwegian Wood nella sua vera versione. Quella della prima volta, quella della puntina del giradischi sempre con il grumo di povere, delle lacrime nascoste di Alessandro, delle mie affannose indagini linguistiche per capire il senso delle canzoni contenute in Rubber Soul.

This bird has flown. 

Sono sempre volata via, in silenzio. Io non sono la ragazza che la mattina presto va a lavorare, non sono neanche il tipo che dorme in bagno. Io sono l'uccello, in quella canzone. Ho sempre saputo quale fosse il mio ruolo, so quando me ne devo andare. Lascio tutto all'alba, quando non c'è più niente da tenere, quando l'arredamento in legno norvegese sta per prendere fuoco, quando l'ultimo bicchiere di vino sta per essere bevuto, quando il suono del sitar sta diventando troppo insistente, quando due minuti e un po' di secondi sono terminati. La melodia, le parole, le sensazioni e gli occhi umidi di 25 anni di Norwegian Wood mi hanno insegnato che volare via è l'unica vita che posso vivere, che l'unico amore che posso avere è quello sul quale appoggiarmi lievemente per riuscire a riprendere fiato, che l'unica casa che posso abitare è quella dalla quale andarmene.

Dopo due minuti e un una manciata di secondi.






lunedì 17 marzo 2014

E se fossi una medusa?

Non sono l'unica che scrive in aereo, ce ne sono diversi. Forse anche loro tentano di mantenere vivo un blog, uno sfogatoio, un diario semi pubblico, un muro sul quale scrivere dichiarazioni criptiche sul significato della vita o sul non senso delle giornate volate via come fossero composte da una manciata di secondi.
Accanto a me un ragazzo, troppo alto per stare seduto qui dentro, punta il ginocchio nella mia no fly zone. Se legge ciò che sto scrivendo, pazienza, scopre così, ancora una volta, di essere troppo alto; un cestista, un trampoliere, uno spolveratore di stipiti dei portoni, un avvitatore di lampadine, una persona che ti fa sentire piccola, o troppo proporzionata; capace di entrare in un letto o in una Smart. Una persona nella norma, normopeso, normoaltezza; di quelle da prendere per fare i sondaggi, o per confezionare la taglia di un vestito. Una media. Né di qua, né di là. Democristiana, moderata, originariamente in mezzo all'Europa, né troppo al Sud, né al Nord.
Sono andata a trovare un'amica, ieri. Una biologa, una collega. Lei si occupa di pesci. Mentre parlavamo della pulizia dell'acquario di Livorno, ho creduto di essere una medusa. Così gelatinosa, trasparente, pungente, in balia delle correnti fresche, ottimo pasto per "Cuba", la tartarugona di 150 kg presente in acquario.
"E se fossi una medusa?" "Ma cosa ti viene in mente? Andiamo a mangiare".
Nel posto dove abbiamo mangiato non funzionava il pos, l'apparecchio per leggere le carte di credito. "Scusi ma è finita la carta, però c'è un bancomat, là, di qua, poi gira di là, non si può sbagliare".
Attraversando a piedi il centro deserto di Livorno, mi sono chiesta quante città ancora esistono in Europa di domenica, e quante, invece, si spengono. Livorno si spegne. Giusto così, come Varese quando ero bambina. Serrande abbassate, tutte.
Lungo il mare gente, tanta. Bambini, moltissimi. Famiglie, pattini, biciclette, prati non curati, cielo lattiginoso, bottiglie di plastica abbandonate, gelaterie colme, con la coda fuori. Eppure c'è vento, maestrale, fresco, non viene voglia di gelato. Coppie: lui, lei, e lo smartphone. Lei, lui e l'iPad. Mi viene il magone. Guardate il mare, state in silenzio, inventatevi una favola, leccate un gelato senza fare 'scroll' o 'tag', osservate il mondo, è in hd, incredibile la risoluzione, vero?
Code al rientro. Perché ci sono le code? Via dalla superstrada, guarda il sole, è viola, prendiamo l'autostrada. Traffico lento anche in autostrada, guarda la luna, bella, usciamo a Sesto, anzi, a Prato Est. Mangiamo da me, non ho niente in frigorifero, ordiniamo una pizza, no che non ho digerito, ancora.
I pesci delle barriere coralline li ho visti una volta, con la maschera. Ma non soffrono chiusi nelle vasche? La mia amica mi assicura di no, non hanno schemi evolutivi come i mammiferi. I pesci sono arrivati, sono al capolinea, hanno raggiunto il traguardo.
Quindi, io da mammifera, ancora non mi sono evoluta. Morirò, probabilmente, senza aver raggiunto il traguardo, senza essere arrivata. Morirò in corsa, quindi non posso essere rinchiusa in uno zoo; non mi potreste creare un habitat, un Truman show?
No, assolutamente, ne soffriresti. Tu, come la gazzella, o il lupo.
Ma non come la mucca.
Quelli sono animali da cortile, Nicole.
Noi non siamo da cortile, siamo da aereo con lo spilungone accanto che siede con le ginocchia in bocca.
Il pesce pagliaccio si chiama Nemo. Io dico che si chiama così in onore di Jules Verne; la mia amica sostiene, invece, che il nome evoca l'anemone nel quale il pesce si nasconde e depone le uova.
Apriamo un dibattito o controlliamo su internet? No. Rimaniamo così, senza scroll. Nel dubbio. E non controllerò neanche domani, e nemmeno dopodomani. Io della mia idea, tu della tua. Ci evolveremo dubitando, e se qualcuno vorrà costruirci un Truman Show nel quale rinchiuderci, a te lo farà pieno di anemoni e a me Ventimila leghe sotto i mari.
Ci incontreremo, dubitando, a metà strada. Negli abissi marini.

La medusa nell'acquario


Il posto con il pos senza carta


giovedì 13 febbraio 2014

Laetitia



In una notte come questa, nella quale le stelle verdi del cielo polare si specchiano sul mare nero gelato, io mi confondo tra le pieghe delle coperte di un letto che non mi appartiene. Non è un albergo, ma potrebbe esserlo. I quadretti appesi alle pareti non li comprendo, al loro interno figure geometriche colorate: vorrei tanto fosse Kandinsky per trovare un senso.
Tu dormi lievemente, come se tutto il peso del mondo fosse altrove, al sud, o al centro dell'Europa. Lontano dai margini del pianeta, lontano da qui, lontano da noi, lontano da te.
I tuoi capelli dorati li ho pettinati con cura, legati in una treccia perché ti facevano il solletico. E ridevi. Mentre io bevo il mio caffè amaro, tentando di trovare un motivo per meritarti.
Tu respiri come una fata di una fiaba di Perrault.
Osservo il pigiamino con i pinguini, gli animali che preferiamo sono sempre quelli che rappresentano posti lontani. Andremo a trovare i pinguini, te lo prometto. Andremo al polo sud, ti porterò, correremo a perdifiato fermandoci solo per toccarci le gambe indolenzite, e tu riderai, come fai sempre.
La musica più bella per me è l'alternanza del tuo respiro, l'odore più piacevole quello che esce dalla tua bocca; un viso botticelliano, e continuo a chiedermi cosa ho fatto per meritarti.
Ieri mi facevi vedere come il viola stia bene con il rosso, e nel foglio pasticciato hai disegnato un viso ovale, rosso, con gli occhi viola. "Sei tu, mamma". Quando è toccato a me disegnarti, invece ho riprodotto tutto fedelmente, viso rosa, occhi verdi, labbra rosse. Quanto siamo privi di fantasia noi adulti? Tesoro perdonami, prometto di pensare a colori, prometto di uscire dagli schemi. In fondo è un disegno, dentro ci possiamo mettere tutto, reinventarci un mondo, scoprire occhi gialli e volti blu, mani più grandi della testa e gambe più corte delle braccia. A cosa servono le proporzioni? Hai ragione tu, è un disegno.
Sono le quattro e non voglio dormire, voglio rimanere qui a guardarti, ad accarezzarti il viso. Voglio aspettare, vederti aprire gli occhi verdi, immergermi nella luce dove riesco a trovare noi: vivo per questi momenti. Vivo per il rosa delle tue labbra, per la melodia della tua risata, per la seta dei tuoi capelli sempre annodati. Vivo per le manine appiccicose che si incollano ai miei jeans, per il gelato che ti cola dappertutto, per gli urletti isterici che fai quando vedi un ragno, per i tuoi piedini freddi che scaldo di baci.
Quando prima di dormire mi chiedi di cantarti The Little Horses. Vivo.

E quando non ne potrai più di me, continuerò comunque a vivere per te.