martedì 22 aprile 2014

Da Arundhati Roy a Tarantino; da Mad Men al mio trasloco, fino ai Ringo



Un po' di tempo fa una mia amica mi ha detto "quando leggo i tuoi post mi rilasso, quasi mi coccolo". A parte il fatto che la dichiarazione mi inquieta alquanto, io so, in fondo al mio cuore, perché accade: racconto cose facili e piccole. Potrei scrivere una poesia sulla cremina dei Ringo o un'ode all'involucro dei Mon Chéri. Quello che mi ha sempre colpito è l'infinita gamma di sensazioni provocate dalle inezie. Perché i massimi sistemi o i sentimenti con le lettere maiuscole, non mi suscitano niente. Un po' come quando vedo un bell'uomo, sarà anche un raro esempio di bellezza maschile assoluta, ma vuoi mettere la poesia celata in uno sguardo dato di sfuggita? In un bacio sognato e mai scambiato? In un soffio lieve di fantasia spazzata via dal tempo? Ma che sto a di'?
Io so che fra qualche anno, quando la gravosità dell'età fagociterà la mia leggerezza espressiva, mi dedicherò ad argomenti pesantissimi, quali la texture dei fondotinta e le qualità delle lozioni per il contorno degli occhi; ma fino ad allora il Dio delle piccole cose continuerà a catturare la mia attenzione e mi accenderà i sensi, mi illuminerà di immenso, mi trascinerà in un turbine di pensieri, spesso impossibili da esprimere.
Un esempio di cosa grande per la quale emozionarsi (e anche pomiciare), è sempre stato il Tramonto Sul Mare. Ma se ci fate caso, ormai è diventato merce da Instagram. Ce ne fosse uno che, davanti ad un Tramonto Sul Mare, si metta semplicemente a limonare. Sono tutti coi tablet o gli smartphone all'aria, proni nel catturare l'hd e a dargli l'effettino giusto che migliori i colori. Poi, dopo, forse, chissà, scapperà anche un bacio, un pensiero, un attimo di silenzio: ma prima la foto. Ormai il tramonto sul mare (colto anche dalla sottoscritta, mica parlo male degli altri, sto facendo autocritica) ha perso la sua valenza romantica, non frega più niente a nessuno, forse neanche a me. Quello che importa è condividere, uno dei verbi più usati nell'ultimo quinquennio.
Per fortuna però, oltre all'Amore, la Poesia, l'Arte, la Musica e il Tramonto Sul Mare, c'è la cremina dei Ringo. E quella non la puoi mettere su Instagram, perché è impossibile da tradurre in immagine: è una sensazione. Ed è scritta con la lettera minuscola, è una parola scema (cremina), neanche onomatopeica, impossibile da declamare con impostazione melodrammatica. E' insignificante perché è magrolina e duretta, non abbondante e voluttuosa come la Panna Montata. E' dolciastra, forse troppo. Si tira via con gli incisivi e poi si butta il biscotto, che (diciamola tutta) è trascurabile. Senza la cremina i Ringo sarebbero biscotti inutili, simili ad altre centinaia di migliaia di biscotti. E ne  ho incontrati di biscotti farciti, eccome se ne ho assaggiati! Ma nessuno ha la cremina dei Ringo.
Di quante cose scritte con la lettera maiuscola si può parlare così? Ma soprattutto, come rendere la cremina dei Ringo più morbida? Dandogli un attimo di microonde.
Un'altra parola da scrivere con la maiuscola è Trasloco. Ho visto persone entrare in depressione e accoccolarsi tremanti sulle scatole giurando di non farlo più; gente chiamare la ditta dei traslochi per un preventivo con la voce rotta dalla crisi nervosa e gli occhi fissi sul conto corrente; traslocatori alti due metri e larghi tre, coperti di tatuaggi, con le lattine di birra e le scatole dei Condom infilate nelle tasche dei jeans, inorridirsi come delle suore Domenicane dello Spirito Santo, davanti ad un materasso pieno di chiazze di dubbia origine. Io, che di traslochi ne ho fatti un numero non ben definito, so cosa vuol dire imballare una per una le ciotoline del servizio da 24 per il consommé. Quando mai uno invita una ventina di persone a casa per un consommé? In quale originale corto d'autore surrealista? Ma soprattutto, come si fa ad ingurgitare un consommé senza passare tutta la notte con il rubinetto dell'acqua infilato direttamente in trachea?
Davanti all'immensità di un Trasloco la mia scatola con sopra scritto in nero "Nicole Stuff" è, semplicemente, una piccola cosa. E' tale e quale da quattro traslochi a questa parte. E' iniziata a Londra, poi è tornata a Firenze, dopo ha transitato da Ginevra ed è ritornata a Firenze, per poi finire a Stavanger. Nicole Stuff è una scatola garbata, color zucchero di canna stinto, chiusa con un nastro adesivo trasparente. E' misurata per dimensioni e colore, ma è oltraggiosa per peso. E' un po' come me. Il bello di Nicole Stuff è il suo mistero. Nessuno ricorda cosa ci sia dentro (neanche io) e non è stata mai aperta da Londra 2007, quando nacque. Nicole Stuff ha visitato tutti i garage, le soffitte e le cantine delle case che ho abitato e dalle quali ho solo transitato. Ha fatto amicizia con ragni dal corpo minuscolo e dalle zampe chilometriche; è servita come base per appoggiarci altre scatole, valige, scarponi da trekking, passeggini e seggioloni.
Poco prima delle vacanze di Pasqua avevo preso una decisione epocale: Nicole Stuff questa volta sarebbe stata aperta; non avevo intenzione di portarla a Firenze di nuovo, chiusa e misteriosa. Questo mondo è un posto troppo piccolo per la valigetta di Pulp Fiction e per Nicole Stuff, una delle due deve essere svelata. Poi è accaduta una cosa, ho visto la prima puntata delle settima serie di Mad Men. Sì, ma che c'entra? Direte voi. C'entra, secondo la logica delle piccole cose.
C'è una citazione tarantiniana di quelle da sturbo (che a sua volta citava l'opening de Il Laureato). Donald Draper viene presentato come Jackie Brown nell'intro che trovate qui. Un valore aggiunto, simbolico, che accomuna il grande cinema ad una delle serie più belle mai viste. E allora mi sono detta: perché non rendere la mia vita ancora più cinematografica usando la scatola come fosse una citazione tarantiniana? Perché volere a tutti i costi spoetizzare, svelare, incidere con il bisturi della praticità, un simbolo come questo? Un legame tra me e la voglia di vivermi le piccole cose come se fossero massimi sistemi. Non è solo una scatola: fondamentale è inserire sempre un MacGuffin.
http://it.wikipedia.org/wiki/MacGuffin



Non aveva importanza che la storia fosse già iniziata, dal momento che il kathakali ha scoperto molto tempo fa che il segreto delle Grandi Storie è che esse non hanno segreti. Le Grandi Storie sono quelle che abbiamo già sentito e che vogliamo sentire di nuovo. Quelle in cui possiamo entrare da una parte qualunque e starci comodi. Non ci ingannano con trasalimenti e finali a sorpresa. Non ci sorprendono con l'imprevisto. Ci sono familiari come le case in cui abitiamo. Come l'odore della pelle del nostro amante. Sappiamo in anticipo come vanno a finire, eppure le seguiamo come se non lo sapessimo. Allo stesso modo in cui sappiamo che un giorno dovremo morire, ma viviamo come se non lo sapessimo.

Arundhati Roy - Il Dio delle Piccole Cose

mercoledì 9 aprile 2014

Norwegian Wood (This Bird Has Flown) - i due minuti abbondanti sono finiti



Era molto tempo fa quando entrai in camera di mio fratello e lo trovai a versare lacrime su Rubber Soul, mentre la puntina del giradischi batteva sull'ultima linea del vinile, insistendo su un capitolo chiuso, un amore finito. Non afferrai il momento topico e ricordo che mi disse "Ma cosa vuoi capire tu, di Norwegian Wood?". Io, con  il grembiule bianco della terza elementare, mi sentii inadeguata di fronte al suo complesso mondo adolescenziale. Se, oggi,  dovessi indicare il momento, uno solo, in cui è entrata la musica nella mia vita, credo che sceglierei questo: qualche giorno dopo, rubai il disco dei Beatles a mio fratello solo per capire cosa fosse Norwegian Wood, e lo misi nell'impianto di mio padre, soprannominato "la grande fedeltà".
Aveva ragione lui, non capivo. Perché piangere su una canzone un po' melliflua in 3/4? E cosa vogliono dire tutte quelle parole in inglese che non capisco?
A otto anni iniziò la mia attività di traduttrice di canzoni, perché Rubber Soul andava compreso, analizzato, sezionato: faceva emozionare mio fratello.

Avevo undici anni quando andai, con i miei genitori, in vacanza sui Fiordi. Era luglio, e ricordo che partii da Strasburgo con il broncio e un biglietto pieno zeppo di cuori di "addio" della mia migliore amica. Non mi andava di passare una settimana confinata in un buco norvegese da sola con i miei. Però nel lettore cd portatile (preistoria?) avevo Rubber Soul e durante le escursioni mi isolavo; finalmente riuscivo ad inumidire gli occhi su Norwegian Wood. Immaginavo che i mobili della canzone avessero lo stesso profumo di abete che mi circondava, respiravo a fondo e lo immaginavo mischiato all'odore del fumo. Avevo una gran voglia di vedere qualcuno dare fuoco a una delle tante case, o barche, per percepire come si possa sentire chi vuole chiudere, demolire, finire di navigare. Volevo lasciare quella breve vacanza sin dal primo giorno.

Perché mi avete fatto studiare pianoforte? Uno strumento fisso è complicato. Dovevate propormi il sitar.

Un giorno capii che il tipo con il quale uscivo era un emerito idiota. Lo capii perché attaccava allo specchietto retrovisore l'Arbre Magic alla colonia e perché durante la lezione di Botanica I mi afferrò improvvisamente i lobi delle orecchie e disse "chissà cosa vorrai sentirti dire, anima mia bestiale".
Scelsi un momento come un altro per dirgli che era meglio se finivamo qui, così, restando amici (?), ma lui non la prese benissimo. Gli feci sentire Norwegian Wood dicendogli "è tutto dentro questa canzone". Come risposta ebbi un "Cazzo, ma ti capisci da sola!". Aveva ragione. Nessuno, tranne me, poteva capire il mio viaggio dentro Norwegian Wood. Forse quella fu l'unica volta nella quale il tizio con il quale uscivo, si dimostrò meno idiota del solito. Ma ormai era tardi per tornare indietro. Erano passati i due minuti.

Quando, un paio di anni fa, ho avuto la certezza che la Norvegia mi avrebbe ospitato per un certo periodo, ripensando alla vacanza di tanti anni prima, ho preso il disco che mio fratello mi aveva infine regalato e con l'idea che niente nella mia vita avviene per caso, ho riascoltato Norwegian Wood nella sua vera versione. Quella della prima volta, quella della puntina del giradischi sempre con il grumo di povere, delle lacrime nascoste di Alessandro, delle mie affannose indagini linguistiche per capire il senso delle canzoni contenute in Rubber Soul.

This bird has flown. 

Sono sempre volata via, in silenzio. Io non sono la ragazza che la mattina presto va a lavorare, non sono neanche il tipo che dorme in bagno. Io sono l'uccello, in quella canzone. Ho sempre saputo quale fosse il mio ruolo, so quando me ne devo andare. Lascio tutto all'alba, quando non c'è più niente da tenere, quando l'arredamento in legno norvegese sta per prendere fuoco, quando l'ultimo bicchiere di vino sta per essere bevuto, quando il suono del sitar sta diventando troppo insistente, quando due minuti e un po' di secondi sono terminati. La melodia, le parole, le sensazioni e gli occhi umidi di 25 anni di Norwegian Wood mi hanno insegnato che volare via è l'unica vita che posso vivere, che l'unico amore che posso avere è quello sul quale appoggiarmi lievemente per riuscire a riprendere fiato, che l'unica casa che posso abitare è quella dalla quale andarmene.

Dopo due minuti e un una manciata di secondi.