venerdì 13 marzo 2015
Il Quore
Mi siedo solo un attimo, per pensare. Sono giorni che non lo faccio. Rimango immobile ad osservare il mosaico dorato dell'abside, non riesco a guardare altro. Da quanto tempo non venivo qui?
La signora seduta a meno di un metro da me sussurra continuamente parole che non riesco a capire, hanno un effetto balsamico, mi passa il mal di schiena, la testa diventa leggera, potrei anche dormire o rimanere qui, così, per ore. Chissà chi include nelle sue preghiere.
Tenevo mio padre per la mano quando si metteva in fila per andare a prendere l'ostia. Mi piaceva la mia visione dal basso di lui che apriva la bocca come un canarino cinguettante che viene imboccato dalla mamma canarina. Mi faceva sorridere e rimanevo a guardarlo anche dopo, quando non riuscivo mai a vederlo masticare. Mi chiedevo che fine facesse nella sua bocca quel dischetto biancastro, e non capivo perché a me, al contrario, era sempre stato detto di masticare bene e lentamente. "Papino, ma perché non ti affoghi mai?", la risposta non la ricordo. Però immaginavo le conseguenze nefaste: mio padre accasciato per terra, sputacchiante e paonazzo, mentre il prete irremovibile nel suo ruolo di distributore di ostie, lo osserva con sguardo severo e poi alza gli occhi al cielo dicendo "Perdonalo tu". Tutte le domeniche mattina, quando mio padre si accingeva ad andare a messa, io ero già pronta. Era il nostro momento, ed il mio, quello dell'osservazione. Volevo accompagnarlo perché mi piaceva vedere cosa facevano le persone come lui, gli adulti della messa, quelli imboccati dal prete. E perché mi piaceva tutto, il rito, le candele, l'odore dell'incenso.
Quando decisi che anche io volevo essere cattolica praticante come lui, e che anche io volevo mettermi in fila per prendere l'ostia, ricordo che mio padre mi disse che ero ancora troppo piccola, che dovevo pensarci bene perché è una cosa seria, non un gioco. Smisi di accompagnarlo alla messa, ero arrabbiata, delusa da quelle parole, incapace di comprenderle fino in fondo, dal momento che quasi tutti i miei compagni di classe andavano a catechismo e presto avrebbero fatto la comunione. Non erano piccoli loro?
La signora smette di sussurrare, mi volto a guardarla e la trovo con gli occhi puntati su di me. Le sorrido, le dico buongiorno, lei accenna un sorriso, ma non mi risponde; si avvicina un po' di più. Mi prende le mani, le sue sono gelide, ossute. Poi, con le sue mani intorno alle mie, si volta verso l'altare, e continua a sussurrare parole, su parole, su parole. Se solo una di quelle venisse ascoltata, recepita, inglobata, fagocitata per poi essere espansa in un altrove ignoto, una quinta dimensione, la signora avrebbe vinto. E avrebbe vinto di nuovo anche Kaluza.
Io non voglio sapere niente di lei, però mi piace come mi tiene le mani. Credo preghi in polacco.
Quando mio padre decise che ero sufficientemente grande per fare la comunione, io già non ci pensavo più. Rimuginavo solo sui maschi, sulla musica e su come primeggiare in ogni ambito, compresi gli sport con il cavallo. Dio c'era, forse, da qualche parte, ma non credo si preoccupasse molto del fatto che non avessi mai fatto la comunione o che non avessi vinto la gara di matematica a Zurigo nonostante avessi recitato un Padre Nostro la notte precedente. A dire il vero non si preoccupava proprio di niente, a giudicare da come andava e va il mondo. Quindi perché interessarsi alla mia ostia? Ogni tanto accontentavo mio padre accompagnandolo alla messa: come facevo da piccola osservavo, ma qualcosa era cambiato. Non c'era più nessun mistero per me, tutto era svelato, come con l'uovo di Pasqua, trovavo una sorpresa che deludeva sempre le mie aspettative: finiva la magia e regalavo il portachiavi a mio fratello. Anche il rito della comunione, così come quello del Kippur, aveva smesso di essere mistero. Mi piaceva un ragazzo, dopo averlo conosciuto meglio, tutto il mio coinvolgimento si risolveva con un "beh, riteniamoci liberi". È sempre stato così, the story of my life, come l'album di Deana Carter.
Le scarpette di vernice della domenica, quelle bellissime con il cinturino, forse erano dentro una scatola, in soffitta, sopravvissute all'ennesimo trasloco.
Io e la signora polacca usciamo fuori dal Sacro Cuore, insieme. Le cupole bianche si scagliano nel cielo blu, Parigi ai piedi, la funicolare, le scalinate, il cuore di Gesù Cristo e le preghiere. Il mosaico che ancora è impresso in fondo al mio, un quore ordinario.
Starei qui ancora, è maledettamente tardi.
"Sei cattolica?" mi chiede
"Tecnicamente sì, ma sono stata educata da un cattolico e da un'ebrea, ho una visione abbastanza globale e un po' confusa"
"Allora ecco svelato il motivo.., mais j'ai prié pour vous"
Perché?
Forse dovevo aspettare i miei 33 anni per capire che sono i perché senza alcuna risposta la spinta propulsiva, la miccia, il fascino di una vita piena di inutili responsi ad altrettante futili domande. C'è vento freddo, se solo avessi la classe di questa signora dalle mani fredde ed ossute, anche io mi legherei il foulard in testa. Opterei per la stessa fantasia delicata blu e rosa che ha scelto lei, mi sentirei una diva anni 50, indosserei degli occhialoni da sole e scenderei tutte le scale che mi trovo davanti con la borsetta in tinta con le scarpe. Annusando il profumo della primavera imminente che, ciclicamente, ci ricorda che la vita finisce e inizierà di nuovo, sempre, fino a che rimarranno domande senza risposta.
Dedicato a papà, per avermi detto tante volte di no. Grazie.
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