martedì 27 agosto 2013

Favorisca i Travis



Domenica sono stata a Bergen, che forse è meglio di Stavanger, o forse no, dipende dai gusti. Si estende sulla Bergenshalvøyen, una verde penisola appoggiata sui fiordi. Gli odori di muschio e abete si mischiano a quello del mare, e se lo sente Chanel ci fa uno profumo che non sarà mai erotico come quello reale, mi spiace. E' una città incantevole, abitata da persone incantevoli. Tra Bergen e Stavanger ci sono poco più di 200km, ma il viaggio è lunghissimo. All'andata ero in compagnia di una mia amica che abita a Bergen, quindi le ore trascorse in macchina sono volate. La sera, dopo aver lasciato la mia amica a casa, sono tornata indietro con la sicumera di una che la strada l'ha già fatta, eppoi, c'è il navigatore, mica mi perdo, io. Dopo poco più di un chilometro mi sono fermata a scattare delle foto (tramonto rosso con nuvole grigie, capirai, e chi se lo fa scappare?), c'era una famiglia di Los Angeles che faceva lo stesso. Ovviamente due chiacchiere, ho un cugino che studia fisica a Santa Barbara, uno zio che sta a Dallas, un fratello che sta a New York quando non è negli Emirati Arabi, parte della famiglia di mia madre abita a Chicago, ma che bei bambini, anche io ne ho, quando state?. Mi hanno invitato a prendere qualcosa nel bar di fronte al ciglio della strada con vista mozzafiato. E credo che siano passate più di due ore. Era tardi, mezzanotte. Era buio pesto. Ciao ciao, tante care cose, buon proseguimento della vacanza. E mi prende una botta di sonno allucinante. Ho capito, navigatore aiutami tu che non so se ce la faccio. Imposto Stavanger, il simpatico aggeggio calcola la distanza e la durata del viaggio e me pija un colpo al cuore che neanche se m'avessero detto che m'aspettava la morte: cinque ore e trentasei minuti di viaggio. Considerato che la mattina dopo alle otto e mezza, dovevo essere a scuola, m'è preso lo sconforto. Mando un sms alla mia amica 'cinque ore di viaggio, possibile?', lei mi risponde 'ma sei sobria?'. Annamo bene. Arrivare in ritardo e con gli occhi incollati il primo giorno del lavoro di squadra (tradotto alla lettera, sarebbe il giorno in cui come ne Le simpatiche canaglie, ci si traveste da adulti impegnati a progettare programmi interdisciplinari) sarebbe proprio disdicevole. Riacciuffo l'amico navigatore, riscrivo tutto per benino, questa volta con i nomi delle vie, ricontrollo che la nazione sia Norvegia, e non Nord Carolina (ché negli Stati Uniti c'è pure un posto che si chiama Florence, non vedo perché non ci possa essere Stavanger) e faccio rifare il conto all'affare. Niente da fare, le solite cinque ore abbondanti, anzi, qualcosa in più. Forse perché ho messo i nomi delle vie. Va beh, sono stata nel deserto in Arizona una settimana, ce la farò ad attraversare due fiordi di notte, da sola, con il sonno e con un leggerissimo giramento di balle. Ah, ma io ho un marito! Telefono a Steve: sono a Bergen, cinque ore per andare a Stavanger, possibile? La riposta è stata no solo se passi pure dalla Finlandia, con l'aggiunta di tutta una serie di indicazioni stradali correlate da nomi delle vie in norvegese strettissimo, che è perché mi chiamo Leblanc e non Cozzolino che mi sono trattenuta da dire 'mavafangulo!'. Va beh non è la prima e non sarà certo l'ultima notte che passo in bianco.
Guido per più di un'ora, con l'ultimo cd dei Travis (che non è male, anzi), poi mi fermo a riflettere (non voglio ammettere che morivo dal sonno). E mentre sono ferma sulla corsia di sosta laterale, con la coda dell'occhio vedo un'altra macchina accostare alla mia destra. Tranquilla Nicole, che qui in Norvegia all'una e mezza di notte, alle donne sole al buio in mezzo al nulla, la cosa peggiore che può succedere è di vedere Babbo Natale. Fisso il cellulare e faccio finta di niente, poi sento parole in norvegese pronunciate da una voce maschile. Forza Nicole, voltati, e guarda chi è, non fare la codarda, ma perché non tieni uno spray al peperoncino in borsa come tutte le signore per bene? Mi giro e credo di aver fatto il sorriso più autentico della mia vita: una macchina della Polizia con due meravigliosi poliziotti dentro. Scendo dalla macchina, ne scende uno (l'avrei baciato in bocca, french girl french kiss) buonasera signora, se possiamo essere utili.. Utilissimi! Mai stati così utili! Mai visto due uomini così utili! Siete talmente utili che vi farei pure entrare in cucina, fossimo nel salotto di casa, ad aprire la bottiglia di vino e poi a buttare via la spazzatura, come fanno tutti gli uomini utili. Spiego che devo andare a Stavanger, che vengo da Bergen, che ho il navigatore, ma che effettivamente la distanza mi pare troppa. Scende anche l'altro tipo dalla macchina, si toglie il cappello per salutarmi, allungo la mano aspettandomi un baciamano, invece me la stringe e basta. Il primo poliziotto mi dice che sto prendendo un'altra via e che la strada per arrivare direttamente a Stavanger è un'altra. Questa che sto percorrendo evita il traghetto, ma è molto più lunga. Allora tiro fuori il navigatore stolto dalla macchina, e i due cavalieri cominciano a armeggiare con tasti e tastini e in meno di due minuti me lo restituiscono dicendo Signora, lei aveva escluso le strade a pedaggio dalle impostazioni principali. Ah, e quando l'avrei fatto? Mai toccato niente del navigatore. Mi sento una cretina, ma siccome sono una scema socievole, racconto anche un po' di cazzi miei mettendoci qualche battuta, e i due cavalieri ridono, sempre all'unisono, tanto che pensavo di vederci doppio. Uno si mette alla guida della mia macchina, e mi dice dorma pure (so you can sleep now, strano che non abbia aggiunto my love), l'altro ci segue con la macchina. Io ovviamente, non ho chiuso occhio, ho solo fatto finta per non fargli dispiacere. Bella musica, i Travis, giusto? DiceVa beh, ma sto sognando, dai. Non può essere vero.
Mi accompagnano fino al bivio che mi avrebbe portato al traghetto. Mi lasciano un numero di telefono e mi danno indicazioni circa un'app da installare sul telefono, da usare in casi simili, poi ci salutiamo, strette di mano piene di fiducia, sorrisi, occhi colmi di gratitudine...(i miei). E la paternale? Quella del tipo non si giuda quando si avverte il sonno? E la patente? E i documenti?
Chissà se in norvegese esiste il corrispettivo di favorisca. Forse no.


sabato 24 agosto 2013

Obiettivo realtà



Ogni tanto mi metto alla prova, lancio delle vere e proprie sfide a me stessa. L'ho sempre fatto, sin da piccolissima quando salivo e scendevo di corsa le scale di casa contando quante volte lo facevo in mezz'ora. E ogni volta provavo a battere il mio record personale. O quando in piscina facevo le gare di apnea, sempre con me stessa, perché nessuno voleva 'giocare' così con me. Ma le sfide sono state anche mentali, emotive; provavo, ad esempio, a fare a meno della mia amica del cuore per qualche giorno, per studiare le mie reazioni psichiche, per trarre conclusioni del tipo sì, ce la posso fare/no, non ce la posso fare.
Ho sempre fatto fotografie, come dice  Charlotte (Scarlett Johansson) in Lost in translation: I tried taking pictures, but they were so mediocre. I guess every girl goes through a photography phase. You know, horses... taking pictures of your feet. Solo che io dalla fase foto (dei piedi e non) e dalla fase cavalli, non ne sono mai uscita.
Quando ero una fanciullina di 11 anni, mio padre mi regalò una Polaroid. La felicità di possedere una macchina fotografica che sfornava foto istantaneamente me la ricordo ancora, credo sia stata una della gioie più grosse della mia pre adolescenza. Le mie erano fotografie nichiliste: forchetta con gelatina, manico di scopa per terra, kleenex dentro il cestino della carta, dito graffiato dal gatto, occhio che lacrima.
E' abbastanza intuibile capire quanto per me, il periodo del digitale e dell'editing fotografico, rappresenti come per il goloso, una vera e propria pasticceria ricolma di torte e dolcetti.
La sfida di questi ultimi giorni, è riuscire a capire cosa sia per me la fotografia. E per capirlo devo privarmene. La mia ultima foto scattata con la Leica è di due giorni fa. 48 ore sono relativamente poche, ma sono sufficienti per farmi intuire alcune cose.
Sophie Calle in una delle sue opere, La Filature (il pedinamento), chiese a sua madre di mandarle un detective per seguirla e fotografarla in diversi istanti della giornata, come conferma della propria esistenza. Perché la realtà spesso sfugge, e il bisogno di afferrarla e trattenerla in qualche modo, come quelle bottigliette con su scritto 'aria di Positano', è quasi irrefrenabile. Il mondo che mi circonda mi piace a tal punto, da dubitare della sua esistenza. La campagna della Val di Chiana, esiste? Io la vedo, sembra un patchwork, come quelli che facevo insieme a mia nonna. Con i ritagli di stoffa, mi piaceva accostare i colori che stavano bene insieme. La campagna senese è uno splendido patchwork dove il giallo ocra, il verde foresta, il bronzo e il verde oliva, si alternano con grazia e perfezione. Le cuciture sono le strade e i viottoli sterrati. Mangio con gli occhi e con il cuore, quindi fotografo.
Ne consegue che quando non lo faccio sono insoddisfatta. Ero la croce delle gite scolastiche, quella che faceva fare tardi a tutti perché 'vedi quell'angolino? Lo devo immortalare' o quella del 'tu mettiti qua, tu mettiti là, no, un po' più a destra però fai finta di farti i cacchi tuoi che le foto in posa, no, mai, per carità'.
Kafka diceva una cosa abbagliante. Tre cose: vedere se stessi come una cosa estranea, dimenticare ciò che si è visto, conservare lo sguardo.
Non è facile.

Osservo da sempre la mia vita e non mi importa della definizione, anzi, quando guardo foto troppo definite mi paiono fredde, senza anima. Non sono interessata al numero di pixel,, fosse anche uno solo, un grosso pixel rosso rubino, quello che conta per me è lo scatto fotografico, non la resa. Una notte al mare non c'era la luna, le acque marine erano plumbee, la sabbia al buio sembrava grigia antracite, e ho fatto una foto senza flash con ISO a 100. Una foto blu notte. Poteva anche essere un pixel solo. O forse lo era. L'importante per me era il colore della notte. Riguardandola ne sento ancora il profumo.

La foto sopra è una di quelle che mi piacciono, in Sicilia due anni fa, indovinare dove.


La realtà che ho io per voi è nella forma che voi mi date; ma è realtà per voi e non per me; la realtà che voi avete per me è nella forma che io vi do; ma è realtà per me e non per voi; e per me stesso io non ho altra realtà se non nella forma che riesco a darmi. E come? Ma costruendomi, appunto.

Uno Nessuno Centomila - Luigi Pirandello




lunedì 12 agosto 2013

Io e il Mondo Mamma



Mentre sono all'aeroporto di Pisa, di fronte al distributore di piadine e sushi, seduta ad un tavolino in ferro nero pieno di mosche che puntano la mia lattina di Coca Zero (beh, vi ho regalato un briciolo di depressive live, come vi sentite adesso?), decido di scrivere due paroline in merito al mondo mamma, come trovereste scritto su Gioia o su Grazia, o in uno a caso di quei settimanali che suscitano da un numero imprecisato di lustri la stessa domanda: ma chi è che li compra?
Il mondo mamma è bello incasinato. Considerazione globale, scaturita però dall'osservazione di una sola coppia con due bambini piccoli, seduta al tavolo di fronte al mio. Lui dà lo yogurt alla bimba, lei (la moglie, si presume) invece pulisce il tavolo con l'avambraccio, dondola la carrozzina con l'altra creatura, parla al telefono, si sistema le ciocche di capelli, e rotea le caviglie come a sgranchirsi le ossa. Lui si limita a dare lo yogurt alla figlioletta, in posizione seduta rigida, a 90 gradi, proteso nel compimento della sua azione. E quando la piccola si rifiuta serrando la bocca, il paparino insiste con il cucchiaino (si chiama operazione sfondamento). Ovviamente la pappina rosellina finisce ai lati della bocca e gocciola sul vestitino, e la mamma, mentre fa le cose di cui sopra, con la velocità di una salamandra braccata, tira fuori un fazzoletto di carta dalla borsa e trova il modo per pulire la bocca alla piccola, lanciando occhiatacce di rimprovero al marito. Il tutto sempre parlando al telefono.

A me sale l'ansia. Io non sono così, non sono mondo mamma. Provo a mettermi nella situazione della coppia che osservo, e traggo le seguenti considerazioni:

1) Io lo yogurt rosa a mia figlia sdentata non l'avrei dato, non per qualcosa, ma perché lei al primo cucchiaino me l'avrebbe sputato dritto in un occhio, ed io le avrei detto 'hai ragione, sta merda la diamo a paparino, guarda come la mangia papà, vedi?'.
2) Io il vestitino a balze rosa a mia figlia non l'avrei mai messo, ma solo perché lei non l'avrebbe voluto.
3) La carrozzina non l'avrei dondolata, avrei detto a mio marito 'Tuo figlio piange, vedi di far qualcosa, tira fuori la tua proverbiale creatività, mentre io vado in bagno a sistemarmi i capelli'.
4) Se avessi visto mio marito insistere con il cucchiaino praticando operazione sfondamento, gli avrei detto 'Non insistere, fai il ritroso, funziona con le donne'. Lui mi avrebbe risposto 'ma se mi hai appena detto che con te non attacca mai!', ma questa è un'altra storia, non divaghiamo.
5) Non avrei mai lanciato occhiatacce di rimprovero a mio marito. Non mentre parlo al telefono, almeno. I rimproveri sono belli solo quando diretti, senza intralci: quando si può urlare, pestare i piedi, ringhiare, graffiare, fare pace.
6) Tutte quelle cose, compreso il gesto distratto, ma ossessivo, di pulire il tavolo con l'avambraccio, non ce l'avrei fatta a farle contemporaneamente.
Avrei cantato sottovoce, probabilmente. Letto le ultime pagine di un libraccio appoggiato sugli scaffali della libreria, spento il telefono perché all'aeroporto suona per dire quando parti-quando arrivi-dove vai, andata a fare due passi fuori per provare l'ebrezza di passare dall'aria condizionata a quella non, osservato il monitor delle partenze facendo finta d'essere in una multisala con i titoli dei film 'danno Francoforte di Alitalia alle 12 e 15, vediamo quello?'. Salutato persone sconosciute al gate degli arrivi, solamente per il piacere immenso di vedere che faccia avrebbero fatto. Ed infine preso il barattolino di yogurt rosellino, portato in bagno, rovesciato nel wc, e tirando lo sciacquone avrei detto 'Ti auguro buon viaggio a bordo di Ryanair'.

Il mio mondo mamma non è mai stato da rivista, non corrisponde a quello che leggo nei blog delle mamme. Non sono attenta, non sono salamandra nel tirar fuori fazzoletti dalla borsa, non ho kit di pronto soccorso, non so fare il cake design. Sono disorganizzata, disordinata, spesso con la testa tra le nuvole, vado ai colloqui con le insegnati e finisco per parlare di come si vive bene in Italia, nonostante tutto, o dell'ultimo film visto. Faccio le torte storte con la panna e mi brucio i polsi tutte le volte che uso il forno. Vesto i miei figli secondo i loro gusti, metto loro la maglia della salute sbagliata "ma non è caldo cotone, questo!" (come mi disse una volta una mamma attenta, non ho mai capito la differenza tra cotone e caldo cotone, lo ammetto). Non ho mai avuto bisogno di dritte per superare la depressione post partum, anzi, post partum stavo una favola. La depressione m'è venuta prima, quando allo specchio mi vedevo come la donna cannone travestita da balena e leggevo la pietà nell'altrui sguardo per cotale cetaceo aspetto. Ho sempre adorato allattare quando quasi tutte le mie amiche mamme mi dicevano 'pazza, 18 mesi di allattamento, ma sei pazza, una donna oggi come fa?'. Non ho mai usato il reggiseno da allattamento, non ho mai parlato dell'episiotomia così come i reduci della guerra in Afganistan, non mi sono mai dilungata circa malanni dei miei figli.
Come fa una donna oggi? Ho scelto di avere due figli quando le mie amiche coetanee ancora andavano in discoteca e mi dicevano 'ma li fai così presto?' strabuzzando gli occhi. Adesso che in discoteca ci vado io, le mie amiche coetanee che stanno solo pensando ad avere figli, mi dicono 'ma vai in discoteca adesso?', sempre strabuzzando gli occhi.
Lo faccio apposta a sbagliare i tempi, più sono criticata più sono interessante.


Tutto il ballo, il mondo intero, tutto si coprì di nebbia nel cuore di Kitty. Soltanto la severa educazione ricevuta la sosteneva e l'obbligava a fare quello che da lei si pretendeva, cioè ballare, rispondere alle domande, parlare, sorridere persino. Ma, prima che cominciasse la mazurca, quando già si allontanavano le sedie e alcune coppie s'erano mosse dai salotti verso la sala grande, Kitty fu presa da un attimo di disperazione e di sgomento. Aveva rifiutato cinque cavalieri e ora non ballava la mazurca. Non c'era neppure speranza che qualcuno l'invitasse; proprio perché ella aveva un così grande successo in società, a nessuno poteva venire in mente che non fosse impegnata fino a quel momento.
Lev Tolstoj  - Anna Karenina