giovedì 14 maggio 2015

Penrose e lo strano anello. (Il dolore a tre voci del canone eternamente ascendente)



Il ticchettio della pendola riempie il silenzio. La mia tazza di tè fuma ed è decorata da cicogne civettuole. È pesantissima da sollevare, da portare alla bocca, da sostenere, come l'aria di chi ce la fa comunque: la mia. La signora tiene gli occhi bassi sul tavolo "sei sicura che non vuoi zucchero?". Sicura.
"Vuoi vedere la sua stanza?". Sì magari...anzi, preferirei di no, ma non lo deve sapere nessuno. Se potessi, sceglierei di non conoscere e di non vedere, più vado avanti più avverto dolore. Più mi affeziono e più mi sento in colpa; più vado avanti, più avverto dolore, più.. La signora si alza dalla sedia facendola strisciare sulla moquette, mi mette la mano sul braccio. Rimango comunque con la tazza pesante attaccata al labbro inferiore. Non sto bevendo, inalo i vapori del tè troppo diluito e troppo caldo per essere bevuto. "Vieni, vieni con me". Appoggio la tazza sul tavolo di legno scuro, quasi nero. Come scura è la pendola che continua a ticchettare insistentemente, senza saltare un colpo, con cadenza precisa, oscillante. Vorrei che il mio cuore seguisse il ritmo definito di un orologio, invece sento che è confuso, agitato, approssimato, batte troppo forte, poi, improvvisamente, sembra fermarsi. Respiro a fondo per farlo ripartire, mi alzo dalla sedia sollevandola leggermente, non sopporterei un'altra volta quel rumore sulla moquette. La signora è avanti a me, lungo il corridoio. Il parquet scuro, come il tavolo sul quale adesso riposa la mia tazza, come la pendola che avverto sempre più lontana, come il mio cuore, sordo, adesso. Arriviamo alla fine, c'è una robusta scala a chiocciola che porta alla mansarda. Tutte le case della vecchia Strasburgo ne hanno una. La signora è davanti a me, mantengo la distanza che mi consente di non pestarle la lunga gonna blu. La scala sembra non finire mai, fa giochi strani, è Escher, è la scala di Penrose, salita e discesa, si alternano, si sovrappongono, seguono le aritmie del mio cuore, il respiro altalenante, i pensieri bui e luminosi, i sogni infranti, le salite e le discese, il rapporto tra vita e morte, tra fine e inizio. Dietro ad ogni curva c'è una nuova salita, dietro ad ogni salita troverò un'altra curva.
La stanza del figlio è un film doloroso di Nanni Moretti. La stanza del figlio è quella nella quale sto per entrare senza averne diritto, senza volerlo, senza averlo mai chiesto. Violare lo spazio di un altro, la vita di un ragazzo che non ho mai conosciuto. Rimango sulla porta. La signora si scusa "non ho fatto ordine, mi spiace, ma...ecco, io...". Non importa. Piangiamo insieme sulla soglia di questa stanza disordinata, abbracciamoci e versiamo lacrime. Poi salutiamoci. Tornerò fra qualche settimana a trovarvi, staremo meglio. Continuo a rimanere sulla porta, osservo la signora che apre la finestra per fare entrare ancora più luce, è una giornata di sole, tiepido, il sole di Aprile. Il campanile suona: è mezzogiorno. La stessa tonalità della pendola, lo stesso divergere con i battiti del mio cuore. Devo andare, il tè si sarà raffreddato. "Se vuoi puoi entrare, Nicole". Grazie, ma no. Non entro anche qui, non valico anche questo confine, non esploro un'altra terra, un'altra nazione; non mi impadronisco di un'altra vita, non mi ambiento di nuovo. Sono un'intrusa, sono l'elemento disturbante, sono l'ostacolo, sono ancora una volta dove non dovrei essere. Una strada, una casa, una città, un treno, una spiaggia. Dov'è la mia, di stanza? Quella nella quale rinchiudermi per ritagliare pezzettini di carta dove ho scritto pensieri, tanto tempo fa. Voglio me, il mio conforto, il potermi cancellare e ricostruire da capo, godere la disponibilità e la libertà che solo io stessa posso e so concedermi, Costruire castelli con le mie carte, stare a regole scritte da me, per poi cancellarle e riscriverne di nuove, da rispettare fino a quelle nuove, che somigliano sempre più a quelle di partenza. E continuare così, all'infinito.

Tu devi capire, caro ragazzo, che i Muse non sono il massimo che la vita possa offrirti. Il fatto che la tua camera trasudi questa tua smodata passione, mi fa pensare che forse due chiacchiere con te sulla musica, sarebbe meglio farle. Per poi chiudere il discorso con il maledetto de gustibus, che ha rovinato più confronti del vaffanculo. Nel mandarsi a quel paese c'è la rabbia, ma la promessa e la consapevolezza, che prima o poi ci rivedremo, dato che in quel posto siamo stati mandati tutti (ma proprio tutti tutti, eh). Il de gustibus, vuol dire "ognuno vada per la sua strada, con destinazioni diverse, e guai a incontrarsi!". Mi va anche bene, io voglio andare per conto mio, sia chiaro. Ma se vogliamo dialogare, qualche punto di incontro lo dobbiamo trovare, altrimenti viaggiamo su due binari paralleli. Due tonalità che non si incontrano e non si completano, due discorsi che non si uniscono alla fine. A volte scambiamo i dialoghi per monologhi reciproci. Io parlo, tu parli, non è esattamente come, io parlo ti ascolto e dico cosa penso perché ti ho ascoltato, quindi mi aggancio a te. Dopo ogni curva c'è una salita, tu vedi che c'è una discesa, viaggi nel mio stesso senso di marcia, ma sei all'opposto di me. Il dialogo sui Muse lo faremo, in quel paese, spero. Prometto di non assumere posizioni rigide, però tu promettimi di ascoltarmi e di parlare perché mi ascolti. Farò lo stesso, te lo prometto. Perché mi sei piaciuto nel lasciare questo mondo, hai avuto classe, hai scelto me. E perdona il mio narcisismo, ma non ci posso fare niente.
Ciao, a presto.

<<   Uno dei canoni dell'Offerta Musicale è particolarmente inconsueto. Il titolo è, semplicemente: "Canon per Tonos", e le voci sono tre.
La voce più alta espone una variante del Tema Regio, mentre sotto di essa due voci forniscono un'armonizzazione a canone basata su un secondo tema. Di queste due voci, la più bassa esegue il suo tema in do minore (che è la tonalità del canone nel suo insieme), e la più alta lo stesso tema una quinta sopra. Ciò che, comunque, differenzia questo canone da qualunque altro è il fatto che quando si conclude, o piuttosto sembra concludersi, non è più in do minore, ma in re minore. In qualche modo, Bach è riuscito a modulare (cambiare tonalità) sotto al naso dell'ascoltatore. E la cosa è costruita in modo tale che questo "finale" si leghi perfettamente con l'inizio; il processo può quindi essere ripetuto arrivando questa volta alla tonalità di mi, e così via. Queste modulazioni successive conducono l'orecchio in regioni tonali sempre lontane, cosicché, dopo un certo numero di esse, ci si aspetterebbe di trovarsi disperatamente lontani dalla tonalità di partenza. Eppure, come per magia, esattamente dopo sei di queste modulazioni, viene ristabilita la tonalità originale di do minore. Tutte le voci si ritrovano esattamente un'ottava sopra e qui il pezzo si può interrompere in modo musicalmente compiuto. Si può pensare che l'intenzione di Bach fosse di terminarlo qui, ma non c'è dubbio che a Bach piacesse anche l'idea che tale processo potesse andare avanti ad infinitum, e questo è forse il motivo per cui scrisse a margine "Possa la Gloria del Re ascendere come ascende la modulazione".
Il fenomeno dello Strano Anello, consiste nel fatto di ritrovarsi inaspettatamente, salendo o scendendo lungo i gradini di qualche sistema gerarchico, al punto di partenza.  >>

Tratto da: Gödel, Escher, Bach: un'Eterna ghirlanda Brillante di Douglas R. Hofstadter



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