mercoledì 29 maggio 2013

La capacità di elevare le cazzate e una minestra sotto la cintura



Cosa si fa di notte, quando alle 4 sorge il sole e dopo due ore di sonno non si riesce più a dormire?
Si pensa alle cazzate.
Qualche anno fa, durante la consueta gita a Preikestolen, io, mio marito e due amici, abbiamo conosciuto una premurosa famiglia romana. L'intercalare che usavano era 'li mortacci de Zerba', e si ostinavano a sottolineare quanto Steve fosse 'un bell'americano'. Da quel giorno, Valentina la nostra amica, chiama Steve 'il bell'americano', e lui puntualmente le risponde: 'limortaccideZerba!'.
Nella vita capitano cose che, al momento, possono sembrare semplicemente insignificanti, al massimo quasi divertenti, ma niente di più. Eppure ti indirizzano verso un nuovo modo di relazionarti, modificano i rapporti, li arricchiscono. Il gioco bell'americano/limortaccideZerba, non è una sciocchezza. E' il restauro, attraverso una nuova complicità, di un'amicizia consolidata.
D'altronde io sono quella che pensa che le stupidaggini siano più importanti delle cose serie, che le stronzate risolvano la giornata, che una risata (ma anche mezza) possa salvare un rapporto, o arricchirlo in modo esponenziale.
Ieri sono andata a pranzo con alcuni miei colleghi e degli studenti in lingue che avevano assistito alla nostra 'chiacchierata' su Les femmes savantes di Molière. Tra questi studenti, ce n'è uno che mi ha maledettamente messo in difficoltà, facendomi domande sul contesto storico dell'epoca, quando io mi ero focalizzata soprattutto su tematiche e messa in scena teatrale. In due parole: m'ha rotto le scatole con aria saccente da studentello rompicacchio. Non mi sono sottratta, ma continuavo a correggergli la pronuncia e a far finta di non capire, dato che il suo francese era talmente vichingo da renderlo lingua lappone strascicata. L'orrore puro. E' nata un'antipatia a pelle, reciproca.
Durante il pranzo mi guardava (male) e avrei voluto alzarmi, andare verso di lui, stringergli il nasotto tra le dita e dirgli 'ma chi ti credi di essere bambino scemo brufolone?'. Poi è accaduta una cosa, e tutto è cambiato. E' successo che si è rovesciato la zuppa addosso. La minestra bollente. Gli è caduta sul bacino, tra l'ombelico e la parte inferiore della cintura.
Una persona normale si sarebbe dispiaciuta, ma io sono fatta male, è cosa nota. Già prendere una zuppa schifosa, biancastra, presumo dall'odore di liquido seminale di renna, a pranzo, denota turbe mentali. Non è tanto buttarla giù il problema, quanto affondarci dentro il cucchiaio sperando che ne esca fuori intero e non consunto come dopo l'immersione in acido nitrico. Uno avrebbe voglia di dirgli 'ma che problemi hai? mangiati un trancio di pizza e falla finita, che hai 18 anni'. Ma esiste Dio, ed ha operato al meglio. Ha pensato bene di inclinare la ciotolona (io adoro i piatti fondi, i norvegesi no, solo ciotole da cani) e di dare una lezione al pube del saccente e rozzo norvegese in erba che crede di sapere il francese. Mi ha ricordato Monsieur Candie di Django Unchained. Tra l'altro si vedeva che era uno abituato a mangiare solo pizzaccia e hamburger, da come teneva il cucchiaio. Quello in vita sua un cucchiaio, o meglio, una posata qualsiasi in mano non l'ha mai tenuta (da altre parti forse sì). E qui rivendico le mie origini borghesi di cui NON mi vergogno (qualcuno che conosco bene direbbe 'altocollocate'), secondo le quali essere un signore, si vede in due posti: a letto e a tavola.
Per darsi un tono, per sentirsi francese, ha optato per un surrogato di potage. Peccato che oggetti a lui sconosciuti (appunto, cucchiaio, tovagliolo, ciotola, mi spingerei sino al bicchiere, quello è uno che beve dalla bottiglia anche il vinaccio che si compra) abbiano decido si ammutinarsi con vendetta finale.
Dicevo: mi sarei dovuta dispiacere, perché i suoi simpaticissimi compagni di studi hanno cominciato a ridacchiare in norvegese, con suoni gutturali inclusi nel prezzo della figura di merda. Invece mi sono alzata, sono andata in bagno per ridere in libertà.
Poi è successo un altro miracolo: mi sono sentita una merda.
Lo vedevo impacciato, con i pantaloni bagnati come se se la fosse fatta addosso..insomma, poverello, l'avevo già strapazzato per la pronuncia, la mia parte buona, quella materna per intendersi, ha preso il sopravvento e gli ho addirittura proposto casa mia per dargli un paio di pantaloni di mio marito.
Lui mi ha risposto 'no, grazie, non li posso riempire'. Abbiamo cominciato a ridere, io e lui, come due ebeti. E anche a parlare, come due amici.
In serata mi ha mandato un sms 'je m'excuse', mi sono commossa sul serio.

Est-ce que je peux écrire tout ça sur mon blog, en italien?
Mais bien sûr, c'est rigolo, non? 


martedì 28 maggio 2013

L'arte e la simulazione. Appunti su un film, per non dimenticare.

Giorni nei quali fioccano pareri sulla nuova opera di Sorrentino ed io decido di vedere un film che non è più in sala, del quale, attualmente, non parla nessuno.

La Migliore Offerta di Giuseppe Tornatore è un grandissimo film. Perché? Perché parla di simulazione, di falso, di autentico. Perché parla del mestiere d'attore e d'amore, di cinema e di arte. Perché lo fa usando Hitchcock. Perché lo fa bene.

I sentimenti sono come le opere d'arte, possono essere il risultato di una simulazione.

I sentimenti scaturiti dall'arte, l'arte che sgorga dai sentimenti.
L'arte che si ispira ai sentimenti.

Virgil, misantropo sessantenne, battitore d'asta, si innamora di una donna affetta da agorafobia, che inizialmente non vede, ma con la quale parla al telefono e attraverso un muro.


Non so com'è, ma so già che sarà bella.






Allora, nei hai avute altre donne?
Sì, le ho amate tutte, e loro hanno amato me. Mi hanno insegnato ad attenderti.

Virgil colleziona opere d'arte, ritratti di figure femminili, con la stessa passione e dedizione con la quale un Don Giovanni collezionerebbe donne.

La massima forma di perversione sessuale è la castità.
La negazione. La privazione. Un armadio pieno di guanti.





Com'è vivere con una donna? Esattamente come partecipare ad un'asta, non sai mai se la tua offerta sarà la migliore.




In ogni falso si nasconde sempre qualcosa di autentico. 

Perché il falsario, nel riprodurre l'opera, non potrà mai esimersi dal contributo personale, anche piccolo, impercettibile. In ogni falso c'è un'anima nascosta, quella del suo autore.




mercoledì 22 maggio 2013

Invidia, ma di quella buona, però.



Quando i miei amici hanno saputo che avrei trascorso più di una settimana senza figli & marito in Norvegia, si sono sprecati i commenti del tipo fuuuuuuuuuuurba leeeeei /ma che cuuuuuuuuuuuuuuuloooooo / voglio venire anch'iooooooooooo /chissà che robeeeeeeeeeee.
Questo post è per spiegare quanto l'invidia (sana o meno) faccia malissimo a chi la prova, ma soprattutto a chi la riceve.
Stavanger è una piccolissima cittadina sui fiordi, apparentemente innocua, paradisiaca. In realtà è molto altro. E' come quei paesini illustrati nelle fiction italiane, dove sembrerebbe tutto normale e noioso, non fosse per gli omicidi, i tradimenti, gli incesti, il traffico di droga, le rapine a mano armata e la prostituzione.
Stavanger è capitale europea della cultura, qui sono nate band tipo i Sirenia (e questo la dice lunga), ma non solo; è sede delle principali società petrolifere, tra le quali Statoil. Quindi cosa si trova a Stavanger? Di tutto. Dall'artista tormentato molto gothic, al manager, al geologo (categoria apprezzata dalla sottoscritta) fino ad arrivare al pescatore di aringhe, al pianista jazz o al metallaro di ritorno. C'è più varietà sociale qui che a Oslo, eppure sono (siamo) in quattro gatti e tre stoccafissi.
Spiego questo ai miei amici: i commenti di cui sopra aumentano con intensità esponenziale e l'invidia cresce.
I primi giorni sono stata in albergo, e forse non tutti sanno che stare in albergo qui, non è come stare in albergo da altre parti. Qui non si sente niente. E quando dico niente, intendo dire niente. Provate ad immergervi sott'acqua in una piscina senza anima viva, e rimaneteci 8, 9 ore. Ecco, state simulando una nottata/giornata in albergo a Stavanger. Non si sentono neanche gli spostamenti d'aria quando aprite la finestra. Una situazione amniotica, prenatale. La prima notte è stata insopportabile, sono dovuta scendere al bar alle due perché avevo bisogno di udire qualcosa di umano. Ho trovato il barista muto. Spostava i bicchieri senza fare rumore. Mi hanno spiegato che le stanze sono insonorizzate. Esperienza da non ripetere.
Il primo giorno di lavoro è stato meraviglioso: ho ritrovato alcuni colleghi, il solito Babbo Natale mio vicino di scrivania. Per chi non lo sapesse, è un bel vichingo corpulento, barbuto e silenzioso, che io ho amato alla follia d'un amore unilaterale. E' fidanzato con un tipetto magro magro e piccolino, che è la metà di lui. L'ultimo giorno di lavoro, l'anno scorso, dopo mesi di quasi silenzio, mi ha regalato un sorrisone, un bacio appiccicoso di Coca Cola e due guance in fiamme. Ho capito che l'amore era corrisposto e mi sono anche commossa. Quest'anno è più loquace, al suo Good morning aggiunge un Nicole, che è il corrispettivo mediterraneo di 'Buongiorno bella ciaciona mia vieni accà caciottella di latte fresco metemagnerei, ti voglio bene tantotanto'. Ci vogliamo bene, è appurato. Mi ha persino invitato a cena stasera.
Lavorare in Comune, intendo per i dipendenti normali a tempo indeterminato, non è come lavorare in Comune in Italia, chiaramente. Qui a lavoro puoi anche non venire, puoi startene a casa con i tuoi bambini, se vuoi. O in palestra a fare addominali. Perché il lavoro è telematico. Una ragazza con tre figli piccoli, ieri mi ha raccontato che lavorando ha fatto la torta di mele. Conta ciò che fai, non in quanto tempo lo fai o dove lo fai. Va beh, altro mondo.
Ho passato molte serate e pomeriggi a ristudiare Proust, perché è l'argomento principe di questi mesi ed ho scoperto che non sono più abituata a stare ferma sui libri, mi viene l'esaurimento, sbrocco e graffio come un gatto isterico. Per fortuna ho due amiche come me, una spagnola e un'altra francese, anche loro impegnate nello studio e anche loro schizofreniche. Solo che loro sono libere, quindi mi propongono serate improponibili ad una donna sposata con figli, che io ho accettato una volta sola perché mi sono detta 'va beh, mi farò i cacchi miei, mi porterò un libro'. Il libro non l'ho letto, però ho osservato.
Gli uomini norvegesi sono di due tipi. Quelli che aspettano te, ma non ti guardano e quelli che aspettano te, guardandoti. L'iniziativa la prendono le donne soprattutto, me l'hanno spiegato perché io sono mentalmente in ritardo in materia sociale. Sono sempre uscita in compagnia e non ho mai fatto caso a usi e costumi dell'abbordaggio norvegese. Evidentemente sono capitata male, perché nel locale ho beccato l'unico italiano che c'era. Uno di Tropea ciucco come un salmone al rhum, che mi ha alitato in faccia a un millimetro dal naso 'uats ioooor neiiim biutiful gherl?', mandato a cagare in italiano dopo due minuti, per sentirmi dire 'potevo rimanermene a Tropea...'. Poera stella.

Gli occhi dei 'norvegesi che guardano', sono terribili. Di una profondità strana, in cui la solitudine e il malessere di vivere si incontrano in una danza rassegnata, dove mente e fisico si devono adeguare a sei mesi di buio, interiore ed esteriore, e a sei mesi di luce maleducata che non ti lascia tempo di riposare. Dove gli incontri sono solo piccole oasi dalle quali ripartire il giorno dopo, per trovarne delle altre in cui provare pace, un briciolo di serenità momentanea. Corpi e teste che escono fuori di casa solo per entrare nei pub, per bere sino ad annientare i pensieri, sino a ridurre la dimensione umana che imprigiona gli sguardi. Per liberarne altri, freddissimi in attesa di essere scaldati da luce vera. Non è disinvoltura, non è spregiudicatezza o libertà, è solo ricerca di pace. E' bisogno di verità.

I was in Strasbourg last year, very nice town. Come to my place, I've a Jacuzzi on my balcony.



venerdì 17 maggio 2013

L'arte di aspettare - Stavanger reloaded





La vita è una continua attesa. Aspettare è vivere, ed è un'arte. Ho atteso prima di tornare in Norvegia, aspettavo questo momento allacciato a ricordi recenti non troppo felici, ma necessari. Adesso che ci sono aspetto di tornare in Italia, per portare altri bagagli pieni di pensieri che prima non avevo, pieni di nuove nostalgie, di nuovi odori. O di sensazioni già conosciute e ritrovate, rivalutate, piazzate meglio in quell'angolo dell'anima che prima era pieno di altro a cui pensare.
Nel silenzio della cittadina ritrovo un karma che avevo scordato. E passeggiare o andre in bicicletta incontrandomi con il saluto dei passanti, mi riporta in una dimensione a me cara; quella della cortesia umana, degli sguardi e dei sorrisi gratuiti che con tanta fatica escono fuori in città più grandi e caotiche, quindi più villane, o semplicemente meno umane.
Cosa vuol dire essere al passo con i tempi? Perché in Islanda molti negozi di dischi hanno i vinili e non i cd? Perché sento il bisogno di entrare in un locale sapendo dove sono e non in uno nel quale potrei essere ovunque, a Parigi come a Milano? Perché odio Starbucks? Perché non c'è niente da aspettare, là. E' tutto come già sai, perché ci sei stato a New York (o forse era Londra). Cosa aspettarsi se non i soliti bicchieri di cartone ustionanti, il solito caffè orrendo e le solite facce stravolte dalla smania di avere tutto e di averlo subito?
Io non voglio tutto, non lo voglio neanche subito. Voglio godermi l'attesa, la voglio centellinare così come farei con una giornata speciale. Me la voglio vivere istante dopo istante, dolore dopo dolore, lacrima dopo lacrima, sorriso dopo sorriso, parola dopo parola. E se alla fine dell'attesa non arriva niente, potrò dire, almeno, di aver saputo aspettare, di aver sospirato per poter vivere un momento che forse non arriverà mai, ma che avrei meritato. Respirando con calma vado avanti tra mille incertezze, ma con la sicurezza di essere migliorata nel dare il giusto valore a ciò che merita di essere aspettato, ma anche a ciò che scoprirò solo dopo che non meritava la mia attesa.
Stamattina ero nervosa, dovevo affrontare un lavoro quasi nuovo, pensavo di non essere pronta nonostante lo studio e l'approfondimento. Bevevo caffè e leggevo il giornale sull'iPad; ho trovato un'applicazione per scaricare classici, ebooks. Wow.
No. E' orrendo.
Voglio aspettare, non voglio pensare ad un libro ed averlo dopo due minuti. Voglio uscire, cercare una libreria, chiedere, vedere facce, occhi, stringere mani. Voglio trovarlo solo dopo aver cercato in tre librerie, aprirlo, guardare la copertina, leggere la quarta ed infine pagare aprendo il portafoglio, possibilmente in contanti. Poi voglio aspettare il momento giusto per iniziare a leggerlo, mi deve pesare in borsa, lo devo sentire. Devo poterlo appoggiare sul comodino preoccupandomi di non farlo cadere, deve essere quasi fastidioso, ingombrante.
Questa è arte, l'arte dell'attesa. E' un vero peccato che si stia perdendo, ma io nel mio piccolo prometto di non separarmene mai più.


Mamma cosa fai là sul prato tutta sola?
Amore, aspetto.
Bravissima mamma!

domenica 12 maggio 2013

Il Bacio




Quando avevo otto anni avevo un amico. Non era un amico qualsiasi, era l'amico del cuore, l'amico per la pelle: l'amico, l'unico. Si chiamava come mio fratello, veniva tutti i giorni a casa mia, giocavamo sino a dimenticarci le pareti di casa, i soffitti, le porte chiuse e le finestre con i vetri appannati. Io gli raccontavo storie, lui accettava di giocare con i pentolini ed io con il Lego. Lui era debole, spesso raffreddato, con frequenti emorragie nasali: io ero forte, determinata, un po' timida. Era l'unico bambino della mia età con il quale potevo prendermi la libertà di comandare, di decidere a cosa giocare, di insegnare. Ed io ero per lui un porto dove approdare, un punto di riferimento, una confidente alla quale consegnare buste contenenti segreti.

Però ogni tanto gli facevo male.

Provavo un sottile piacere nel metterlo da parte, gli dicevo che non avevo voglia di giocare, che ero troppo impegnata con i compiti. E andavo dalle mie amiche. Giravo con la bicicletta nel cortile, sapendo benissimo che lui non poteva venire; sapendo che si sarebbe affacciato per guardarmi. E allora io giravo sempre più velocemente, cantando, godendo del suo dolore. Dopo giorni di indifferenza totale da parte mia, lui provava timidamente a suonare il campanello. Chiedevo ai miei genitori di dirgli che non c'ero, che ero dalla mia compagna di classe, dal'amica, quella vera.

Quando ritenevo che avesse sofferto a sufficienza, allora tornavo da lui. E la felicità di riaverlo come amico era incontenibile. Correvamo mano nella mano sino a cadere e a sbucciarci le ginocchia, adoravo i suoi tamponi nel naso, lo rendevano buffo e tenero. Amavo alla follia il suo sguardo stralunato, la sottomissione a tutto e a tutti, la sua fissa per la pasta al burro, i suoi Lego. E tutto ricominciava più bello di prima, più forte, più intenso.


Ieri quando sei partito mi hai baciato a lungo ed è stato un bacio diverso dagli altri. E' stato Il Bacio di questi sette anni.
Ti amo come non mai.


Immagine: Jack Vettriano -n. 1951, Scozia- Long Time Gone