domenica 16 ottobre 2016
Be Here Now
Il taxi procede lento lungo la carreggiata di sinistra. "Non possiamo accelerare un po'? Perderò l'aereo". Il silenzio, lo sguardo nero dallo specchietto, poi di nuovo il silenzio, gli occhi si spostano, io vedo solo le sopracciglia, nere; l'ebano, l'India, il cumino. "Farò del mio meglio. Dove è diretta?" Lo sguardo dallo specchietto si sposta di nuovo su di me, faccio finta di non aver sentito, guardo fuori, piove, la metropoli illuminata lascia scie argentate sui finestrini, bagliori colorati, pennellate, a tratti violente, decise, a momenti confuse, incerte. Rispondo dopo più di un minuto, forse due, guardo di nuovo verso lo specchietto, ritrovo quegli occhi e dico "Per ora ad Orly, come le ho chiesto". Il dopo non può interessargli, sarà un addio, il nostro. Migliaia di taxi, non mi ritroverà più. Milioni di persone, ombrelli, corse ai semafori per non perdere la priorità, per non stare ad aspettare dall'altro lato della strada che arrivi il verde. C'è una città in Germania, Düsserdolf, nella quale qualcuno si è divertito ad attaccare un po' ovunque, fantasmini, esserini simili a quelli di Pacman. Sono proprio loro, con gli occhioni e senza bocca. Si trovano soprattutto vicino ai semafori, lungo i percorsi pedonali urbani di una città in cui tutti alzano il bavero presto, perché fa buio il primo pomeriggio, d'inverno, e bisogna correre sempre verso casa, per staccare, in attesa di un altro giorno in cui attraversare strade e ritrovare i fantasmini. Ci sono stata da bambina, ci sono tornata da studente, ci ho vissuto due mesi per un cambio di scuola, a Düsserdolf. Tu, occhi neri che mi osservi ogni tanto dallo specchietto, non lo sai, questo. Cosa te ne dovrebbe importare? Però, non so perché, te lo dico.
"Lo sa che in Germania, e precisamente a Düsserdolf, ci sono dei piccoli fantasmi sui muri, sui semafori o sui pali della luce?". Mentre lo dico indico fuori dal finestrino, cosa non so, vedo poco, ci sono le gocce di pioggia iridescenti che mi impediscono di mettere a fuoco, che modificano la realtà, che allungano curiosamente le traiettorie, gli alberi, i pali.
"Come, scusi?", mi risponde. Il telefono vibra nella borsa, ma a me preme più che occhi neri capisca che in quel momento io sto pensando a quei tre mesi in cui ho fatto un cambio di scuola, per imparare il tedesco. Che non ho mai veramente imparato. E lo sai perché no? Perché lo amavo troppo, io, il tedesco. Quindi mi intimidiva tutta quella bellezza linguistica, tutta quella coerenza, precisione e logica. Riuscivo a studiarlo, ma non a parlarlo, come le cose preziose che osservi, ma che non usi.
"Io preferisco l'inglese" risponde subito occhi neri "è malleabile, è nella musica, lo capiscono tutti...il tedesco, per carità, a cosa serve?".
Il taxi si ferma, guardo l'orologio, è tardissimo. Scendo senza aprire l'ombrello, mi sembra che manchi il tempo anche per un solo movimento in più. Occhi neri mi aiuta a prendere il trolley, poi mi porge la mano. Lo guardo incuriosita "baciarti non mi sembra il caso, quindi mi piacerebbe stringerti la mano" mi dice. Mi aggiusto la gonna, mi stringo la cintura dell'impermeabile, afferro il trolley, e me ne vado indispettita. Solo perché mi sono confessata un po' con la storia dei fantasmini tedeschi, cosa credeva? Che potevamo...ma pensa te. Che sfacciato, ma poi può essere mio figlio...no, forse figlio no, ma fratello minore, cugino, cuginetto, che ragazzino stupido. Però in fondo voleva solo stringermi la mano. Torno indietro, lungo il marciapiede, accelero il passo, faccio cenno al taxi che sta per andare via. Si ferma, gli busso sul vetro del finestrino e alzando la voce, dico "va bene, diamoci la mano!". Occhi neri mi guarda senza abbassare il finestrino, intanto mi bagno, i capelli, sicuramente mi cola il mascara, sarò un disastro, sono anche in ritardo, diamoci la mano, abbassa questo finestrino, non ho bisogno di altri sensi di colpa, ne sono già fornita, capiscimi occhi neri, non farmi sentire una stronza, non sono peggio di te, non sono neanche meglio e pazienza se ti piace più l'inglese, ma abbassalo e dammi questa mano.
"Allora che facciamo, me la dai la mano?" Lo vedo parlare, mi dice qualcosa che non capisco "non ti sento! va bene, ciao!". Scende dalla macchina e mi dice "Stavo dicendo che non ti dovevi disturbare, ti piacciono gli Oasis?" Si abbassa verso il sedile e tira fuori un cd "No no, grazie, non voglio regali, diamoci la mano che sto per perdere l'aereo, seriamente, sei gentile, ma non mi regalare niente, salutiamoci." Mi chiede quando torno a Parigi, niente strette di mano, vado via, avevo solo bisogno di non sentirmi in colpa.
In volo mi guardo nello specchietto che tengo in borsa: un disastro, appunto, come sospettavo. Mi rilasso, la stanchezza e la tachicardia scivolano lungo il sedile. Nel rimettere lo specchietto in borsa vedo il cd. Be Here Now. Pazienza, non è neanche il migliore, ma poteva andare peggio. Poteva essere Standing On The Shoulder of Giant.
martedì 30 agosto 2016
Caro Ennio
Diario Notturno di Ennio Flaiano è il libro che mi porto spesso dietro. Non l'ho letto una sola volta sottolineando, come faccio spesso, le frasi o i passaggi che più mi colpiscono. Diario Notturno l'ho consumato, giorno dopo giorno. Mi ha accompagnato in momenti in cui mi sono sentita persa, in cui ho cercato risposte, disperatamente. Momenti in cui nessuno e niente mi era di conforto. Perché, Diario Notturno, a differenza di qualsiasi saggio filosofico o opera omnia, o trattato sociologico e psicologico, arriva sempre al punto senza inutili circumnavigazioni linguistiche; senza perdersi nel mare delle digressioni o delle descrizioni, facendomi perdere il focus. Diario Notturno è anche la scrittura delle sensazioni, dei pensieri, normali, quotidiani, che è la cosa che più mi piace leggere. Quanto romanticismo e quanta intensità ed amore per la vita si celano dietro alla poesia dell'osservazione del quotidiano! Diario Notturno è una sorta di piccolo astro puro e luminosissimo, che osservi per assicurarti di essere sempre sotto lo stesso cielo nonostante la terra che calpesti ti sia estranea. Un appiglio, un conforto, una casa, un condensato. Non perché ci trovi scritte le risposte, ma perché calpesti strade da percorrere col pensiero la cui destinazione è sempre ignota, ma sai che comunque, in un modo o nell'altro ti stupirà. Perché niente ci sorprende più di quanto possano fare i nostri stessi pensieri.
Stanotte, mi sono soffermata sulle sue considerazioni circa il film My Fair Lady. Tutti conosciamo la storia del pigmalione che per introdurre in società la fioraia ignorante, le insegna ad esprimersi "come una signora". Ennio Flaiano si chiede a cosa servirebbe, oggi (era il 1956, ma l'attualità dei suoi pensieri è incredibile) imparare ad esprimersi correttamente. A cosa serve imparare a parlare bene se "le attrici" stesse, per sentirsi più vicine al loro pubblico, scadono con il linguaggio. È ancora necessario, si chiede Flaiano, parlare correttamente per ottenere il successo nella buona società? Non viviamo, forse, in un'epoca in cui è necessario esprimersi male per dimostrare la propria spregiudicatezza? E, incredibilmente, aggiunge: gli uomini politici raccolgono consensi soltanto in virtù del turpiloquio che sanno sfoggiare. Cavolo! (tanto per rimanere in tema di linguaggio scurrile) Ma lo scriveva Flaiano nel 1956! Ecco spiegato, perché un tale perde consensi non appena comincia ad esprimersi decorosamente. My Fair Lady è, quindi, il simbolo di un'Europa che si sta avviando verso un processo di volgarizzazione irreversibile? Rappresenta ciò che non importa più essere, "una signora che sa parlare e che si sa comportare" perché quello che vale, che "spacca" è l'esatto contrario. Nel 1956? Non lo so, non c'ero. Oggi, sì. Qualcuno potrebbe storcere il naso, sostenendo che i costumi cambiano, come sempre; che fare i nostalgici non porti a niente, che desiderare un mondo diverso, arcaico, sarebbe come tornare indietro. Che la libertà di espressione, di stampa, di comportamento, come conseguenza diretta ha anche quella dell'uso sregolato del linguaggio. E che quindi, quello che può apparire a Flaiano "volgare", non è altro che una bandiera del processo evolutivo europeo, del processo democratico. Flaiano scrive: la lingua corretta è oggi il malinconico distintivo della borghesia intellettuale, rovinata dalle buone letture e dalla buona educazione.
Sorrido, caro Ennio, perché tu non ci sei più, ma se ci fossi e se leggessi quello che viene scritto in rete, capiresti che i tuoi pensieri circa l'imbarbarimento del linguaggio, sono più moderni dei vari neologismi (che poi, neologismi non sono perché neanche si sa cosa vuol dire la parola "neologismo") o dei vari formati precostituiti. Non si scrive più, caro Ennio. Non si parla più. Si compilano moduli. La forma è già scritta, basta inserire parole diverse negli spazi vuoti. Difficilmente, però, trovi qualcuno che crei di sana pianta uno schema, inserendoci, poi, le parole. Tutto è copiato, incollato, citato. Aaah le citazioni, sapessi quanto le odio! La rielaborazione sulla citazione, quella sì che sarebbe interessante, ma, vedi, caro Ennio, è troppo difficile essere liberi. Perché non basta poter circolare, viaggiare, comunicare, copiare, incollare. Bisogna essere liberi di lasciare che i pensieri formulino delle ipotesi, e che queste ipotesi poi formulino altri pensieri, come una catena, anzi, come un'eterna ghirlanda luminosa.
Il Professor Higgins, dice alla fioraia appoggiata alla colonna "sei un insulto all'eleganza architettonica di queste colonne" e, poi, per amore soprattutto di se stesso, scommette che la trasformerà in una signora semplicemente insegnandole a parlare. Mancano i professori, perché di fioraie ne abbiamo quante vogliamo, con la differenza che sono già tutte perfettamente inserite in società.
Due vecchi gentiluomini, resi compagni dall'età delle idee, vanno a spasso e li vedo avanzare dal fondo di via Po, sotto il sole, conversando pacatamente. La via è deserta: i due poveri vecchi, con la loro precaria presenza la rendono più ammonitrice. Che cosa si diranno, con quali argomenti consoleranno l'attesa di una partenza ormai inderogabile? Quando mi sono vicino sento che uno di essi, commentando una descrizione dell'altro, conclude: << Insomma, se ho ben capito, sarebbe una specie di pancera >>
Ennio Flaiano, Diario Notturno
lunedì 13 giugno 2016
Impromptu
La casa sul mare sarebbe stato il luogo adatto, pensò. Un posto splendido, con una vista abbacinante sull'arcipelago. Era giugno, il mese dedicato alla bellezza bucolica, e anche lei era bellissima; la pelle appena baciata dal sole limpido delle passeggiate, tipico di questo periodo, le conferiva un aspetto fresco, dorato, pieno di vita, di passioni ancora da consumare, di attese tra battiti di ciglia e profumo di cipria. Riempì la piccola ventiquattrore di tutto il possibile, stipandola e strizzandola come i panini imbottiti al prosciutto di Praga che le preparava sua mamma anni prima, prima delle consuete gite in campagna. Si guardò allo specchio dell'ingresso, sorrise nel vedere quanto fosse in forma e pronta per partire, per raggiungere, la pace, l'amore. I capelli a caschetto cadevano dritti e lucidi lungo le tempie, le incorniciavano il volto in modo grazioso, naturale. Erano particolarmente splendenti in quel periodo, neri come la piccola cassettiera di ebano sotto lo specchio. Si sfiorò il collo, nudo, fresco, libero dalle sciarpe invernali o dai foulard primaverili. Pensò quanto fosse stato importante quel collo, per lui. Quante parole nate e morte lungo le curve che precedono la linea della mandibola, che raggiungono sinuose le labbra, gli zigomi, la fronte appena perlata dal bisogno di sentirsi solo desiderata.
Il viaggio per raggiungere la casa sul mare fu letto in un libro tenuto sul grembo, appoggiato sopra al leggero vestito bianco. Lungo la stanza la corriera procedeva veloce, creando magici giochi di luce lungo le pareti, un teatro d'ombra indonesiano, tra Bali e la riga dell'oceano; per lei tutto era magnifico, appagante come un volo pindarico, emozionante come una persona cara appena incontrata. Il finestrino si apriva come lo schermo di un cinematografo e mostrava campagne e strade assolate interrotte solo da qualche macchina cabriolè o da qualche motocicletta. Le immagini schizzavano sulla tela dello schermo con la cadenza del rullo di un proiettore, I campi stavano germogliando sotto nuvole e sole, vento caldo carico di promesse e speranze inondava le pianure, accarezzava le colline verdeggianti, dolce ostacolo a paesaggi lontani da raggiungere, a ideali da afferrare e non lasciare mai più. Il viaggio sarebbe durato solo qualche ora, il tempo di riposarsi per apparire ancora più bella, sempre più pronta per quell'incontro. Appoggiò la testa ai lati della spalliera del sedile, chiuse gli occhi e pensò alla musica di Schubert, all'armonico fluire delle note dell'Impromptu, alla velocità con cui le melodie accarezzano strade, ponti e città lungo un viaggio; alla grazia con cui trafiggono cuori e circumnavigano amori impossibili da penetrare. E godé della magnifica conclusione, dell'ultima nota suonata ed udita, la fine della bellezza armonica, dei toni ora drammatici, ora leggeri e spensierati, ora appassionati di quella bellissima sonata. Pensò a tutte le volte che l'aveva suonata, davanti ai suoi genitori o ai parenti più cari, e ancora una volta al collo, quello baciato, desiderato e voluto, durante l'esecuzione al piano, vicino al suo amore. Riuscì ad assopirsi, infine.
L'arrivo al mare fu segnato da sudori lungo la schiena e chiacchiericci di persone mai viste fino a quel momento sulla corriera; volti inquadrati solo all'arrivo, quando scendi dal mezzo di trasporto e li osservi come se fosse la prima volta. Noti con curioso stupore le facce stropicciate dal viaggio, il senso dell'arrivo a destinazione per raggiungere altri luoghi, altre destinazioni ancora, in un gioco infinito di case da raggiungere, posti dove stare per poi ripartire, ancora, senza farne mai uno tutto tuo, senza concedere veramente mai a nessun luogo di averti possedendoti, e senza che nessun luogo abbia te. O sappia tutto di te. Ti concedi a pezzetti, scegliendo accuratamente cosa dare e a cosa o a chi darlo. Ti ritieni tu stessa un privilegio, in fondo, non per tutti.
La casa sul mare si ergeva dritta e fiera sulla scogliera. Schiaffeggiata dal salmastro e dalle violente mareggiate durante tutto l'inverno, mostrava tutte le sue rughe durante l'estate. Come le signore di una certa età, un tempo bellissime e giovani, e oggi terribilmente e unicamente affascinanti. Il fascino di ciò che è stato vissuto dal tempo, maltrattato dagli eventi, dalle burrasche, o accarezzato piano dal vento caldo di scirocco. Il fascino eroso dalla potenza del maestrale, il vento che piega i pini lungo le scogliere.
Osservò le persiane, l'imperfezione geometriche delle stecche ricoperte di polvere, sabbia e sale. Pensò a tutte le ore che sarebbero servite per rimettere a posto quella casa e sorrise beffarda. Le ore, il tempo, non l'avrebbero mai avuta.
Aprì la porta, l'odore di chiuso, di muffa e legno umido, la travolse senza pudore. Spalancò tutte le finestre, controllò tutte le stanze.
La finestra grande del soggiorno cadeva sugli scogli del mare. Un precipitare di decine di metri.
Era pronta, per l'incontro, lei, capelli di ebano e pelle dorata. Piegò e offrì il collo per l'ultima volta al suo amore, e così, all'improvviso, volò. Verso la sua ultima destinazione.
(Impromptu)
domenica 8 maggio 2016
Dilige et quod vis fac.
"Cosa ti piace fare?" mi chiese con gli occhi abbassati su quello che a me sembrò un blocco di carta rosa. Recitare, cantare, andare a cavallo, risposi. Il blocco si aprì come una farfalla pronta a volare: era una copertina di lana. La dottoressa la alzò dalla scrivania, la girò tra le mani, la manipolò con gesti quasi ipnotici come per farne intuire la morbidezza. "Questa te la ricordi?". No, non me la ricordo, è mia?
Non mi ricordavo di quella copertina, non mi ricordo più niente di quella fase della mia infanzia in cui a cadenza quindicinale andavamo a trovare la dottoressa. La copertina di lana rosa è l'unico elemento che ricordo di quel periodo.
"Dimmi, cos'è che ti rilassa completamente?". Scrivere, leggere, ascoltare musica. Studiare. Baciare i miei bambini, annusare il profumo dei loro capelli, ridere con loro. Mia nonna, parlarle di me, uscire con lei, accompagnarla a trovare le sue amiche, a teatro, ai concerti, al cinema. Poi ci sarebbe il ricordo di una copertina rosa...
"La copertina di Linus" sorrise bonariamente.
No, non è la copertina di Linus, è il ricordo, l'unico che ho, di una detestabile fase della mia infanzia in cui i miei genitori si erano convinti avessi bisogno di una psicologa solo perché ero leggermente perfezionista con me stessa.
"Cosa intendi per leggermente?" Sorrido. Non leggermente, maniacalmente, dai, è vero. Però non mi guardare con gli occhi scrutatori, già ci sono quelli delle persone che tentano di affondarmi, che cercano punti deboli sui quali infilare piccole forchettine da antipasto e zac zac zac punzecchiarmi fino a farmi scappare.
"Perché ti rilassa un elemento come quello della copertina di lana se è legato al ricordo di un periodo delle tua infanzia non piacevole?" Questo me lo dovresti dire tu, cioè, ti pago per avere delle risposte, che diamine! Non lo so perché. Forse perché sono una maledetta autolesionista? Perché sono una squinternata che si rende conto solo adesso che mandarmi a dieci anni da una psicologa fu un gesto d'amore? E comunque non sono venuta qui per darmi le risposte da sola.
"Dove si trova, adesso, questa copertina?" Non lo so. Non l'ho più vista. Forse a casa dei miei a Ginevra, a casa di mia nonna a Strasburgo, o in qualche scatolone negli scantinati di qualche casa, chissà dove. Non mi interessa vederla, toccarla. Sta là, da qualche parte nel mio cervello, sonnecchia, ogni tanto si sveglia per dirmi Oh, guarda che ci sono io le rispondo, mimportauncazzo, e lei si ritira in buon ordine.
A Strasburgo il silenzio della domenica mattina pervaso dal sentore di pane e brioche, di caffè e fiori maggiolini, è rotto solo dal dolore che mi vela gli occhi. È un dolore rumoroso, molesto. "Sai, Nicole, la vita prosegue". Lo so. "Sai, Nicole, ha avuto una vita piena, felice, lunga" Lo so. Però chiudi la bocca, taci, ascolta il silenzio della domenica mattina, tu che ci riesci. Io non ce la faccio, ho la testa piena di frastuoni, martelli, incudini; io in mezzo, sdraiata, schiacciata come una sottiletta, oppressa. Non sono capace di accogliere tesi ragionevoli, non sono disposta a dare un senso, non ho bisogno di nessuno che mi aiuti a mettermi in pace con me stessa. La verità è che ho perso un'interlocutrice intelligente. La verità è che penso a me, e non a lei che non c'è più. Penso a me che sono rimasta senza un tesoro, povera e con le pezze al culo. Bene, mi sto autocommiserando.
Apro l'anta del pesante armadio in camera di mia nonna. Il profumo di lavanda, i suoi bellissimi vestiti appesi in maniera ordinata, perfettamente stirati, coperti di semplice classe, quella innata delle donne eleganti, che non si sono mai tinte i capelli e che anche quando l'argento li colora indicando chiaramente un'età che è fuori dal cerchio della giovinezza, loro preferiscono lasciarli così. Morbidi ed argentei, pettinati con una spazzola infinite volte per renderli più lucidi. Tenuti bene, con cura. Io non sarò mai capace di farlo. Mi tingerò i capelli non appena ne vedrò mezzo bianco. Sarò e sono una donna ordinaria, codarda, che sarà incapace di mostrare la vecchiaia con classe. E penso che sia un dono da meritare, invecchiare. Lo penso perché me l'hai insegnato tu, nonna. Quando mi dicesti che una vera donna fiorisce a quarant'anni, era il giorno del mio trentesimo compleanno.
Scorro con un dito i vestiti, cerco quello più adatto a te. Tu avresti ironizzato, ne sono sicura. Come quella volta che andammo a trovare la tua migliore amica appena morta e nel vederla infilata in un rigoroso completo blu notte, tu dicesti "Povera, non solo è morta, ma dovrà riposare nell'eternità vestita come il suo becchino".
Trovo il vestito. Deve essere lui, leggero, in seta, con un tenue motivo floreale, chiuso da un colletto alla coreana, con piccoli bottonicini trapuntati dello stesso tessuto. Mi ricordo come ti stava bene, e come cadeva morbido e vaporoso sulle tue ginocchia esaltando le gambe affusolate.
"Quando muoio fai tutto tu, Nicole, mi fido dei tuoi gusti perché ti ho insegnato tutto io. Avete sentito tutti?" Era Natale, eravamo a tavola. C'erano tutti. Sono partiti i cori del noooo, ma cosa dici, tu morire? dai, nonna, dai zia, dai mamma, ma cosa dici.
"Dico quello che direbbe qualsiasi mente lucida a 86 anni, ed aggiungo che in questo brodo c'è troppo sale".
Appoggio il vestito sul letto. Ritorno a guardare nell'armadio, nel ripiano superiore le borse, tutte chiuse nella loro scatola, ma l'ultima è diversa, stona con il resto e c'è attaccata un'etichetta con su scritto Nicole. Ne ho quasi paura. Che ci fa una scatola col mio nome, qui? Questo è l'armadio di uso quotidiano, non è quello in cui lei tiene i ricordi o i vestiti che non mette più. Mi siedo sul letto con il fiato corto, capisco subito. Mi tremano i polsi, ho i brividi, mi chiudo il viso tra le mani, non ho molto tempo, non posso permettermi di rigirarmi nel mio stesso sudore freddo.
Trovo il coraggio di prendere la scatola. È di latta, una bellissima scatola di biscotti della pasticceria sotto casa. Quando la apro l'aroma di vaniglia e di fornaio si sente ancora. C'è una busta, e sotto, lei. La copertina rosa. Non la vedevo da quel giorno di 25 anni fa dalla psicologa. La prendo tra le mani, è morbida così come l'ho sempre immaginata. Fa male vederla, fa malissimo sentirla, è come incontrare una persona che pensavamo non contasse più niente, e invece, eccola. Ancora conta, ancora brucia, ancora porta con sé domande, crucci, ricordi, idee e pensieri. Apro la busta con delicatezza: quattro pagine di una lettera scritta a mano, datata 25 Dicembre 2015, il giorno del brodo troppo salato. La divoro con gli occhi carichi di lacrime, la leggo appannata, è la cosa più bella mi sia successa in tutti questi anni. Un tumulto di emozioni, di alti e di bassi, un canone musicale: una rinascita, non solo mia, nonna. Nostra. Siamo rinate, ancora.
La copertina rosa, non è mai stata mia. Era un escamotage della psicologa per farmi parlare, dire cose. Mia nonna sapeva quanto mi avesse colpito, prese un treno e andò dalla dottoressa per farsela dare.
Esistono persone che ci vogliono bene, oltre il limite dell'immaginazione.
Ama e fa ciò che vuoi.
Sant'Agostino
domenica 21 febbraio 2016
Il Ballo di Irène Nemirovsky
Lo lessi in francese, in quarta elementare, ascoltata con attenzione da S.
Ero isolata dal resto della classe per due fondamentali ragioni:
- Venivo dalla Svizzera
- Ero stronza
Parlavo male, mi inceppavo come una balbuziente su parole che ritenevo difficilissime; "calpestare" o "raccogliere". Ero vista dalle mie compagne così come il popolo dei Minimei vede un essere umano strano. O forse ero io la Minimea e loro gli umani, questo ancora lo devo capire.
A metà anno scolastico la Preside chiamò mio padre, era martedì mattina, l'ora della ricreazione. Avevo strattonato uno dei tanti Minimei: C.
L'avevo preso per il colletto del grembiule e l'avevo scaraventato per terra. Poi con i miei stivali di gomma bianchi, l'avevo preso a calci e calpestato.
Non senza motivo: volevo sedermi al posto suo, vicino a S.
S. era un bambino strano e intelligente, doveva diventare il mio compagna di banco. Era taciturno e non portava mai la merenda.
Io sapevo che avrebbe capito la Nemirovsky.
Dopo il colloquio con la Preside successero alcune cose che ancora non ho ben chiare. Ricordo che i miei mi tennero a casa un giorno, che mio padre non andò a lavorare e che passò tutta la mattina seduto sul mio letto come quando avevo la febbre. Mi fece discorsi sulle guerre civili in Africa, sull'amore fraterno, sull'importanza del dialogo tra i popoli di cultura diversa.
Quando tornai a scuola, il giorno dopo, il posto vicino a S. era libero e la maestra mi disse di sedermi là. Mi diede una carezza, mi rivolse un sorriso, ed io provai per la prima volta vergogna vera. Di quella che ti mangia le budella e che ti fa digrignare i denti. Mi sentivo in colpa come non mai. Non meritavo quel posto, né S., né la gentilezza dell'insegnante.
S. diventò il mio amico e a me un giorno, a carnevale, vestita da Rossella di Via Col Vento, venne voglia di baciarlo.
Provai prima chiedendogli la gomma da cancellare, poi facendogli assaggiare un po' del mio panino con la Nutella. Ma Rossella era Rossella, io ero io e non sarei mai riuscita a prendermi ciò che volevo provando a raggirarlo con scuse che risultavano inefficaci.
Passarono mesi, le vacanze estive, ma la mia voglia del bacio non si esaurì. A settembre, quando riprese la scuola, S. era più alto ma ancora introverso e senza merenda. Il mio odio nei confronti di tutti gli altri compagni era cresciuto. La pausa estiva aveva indebolito la mia già approssimativa scioltezza linguistica, infilavo parole francesi là dove mi mancavano quelle in italiano. Mi vantavo comunque con tutti i miei compagni asserendo di esprimermi come una nobile russa ottocentesca. Questo fece di me una vera star, e il mio fascino agli occhi delle mie compagne di classe crebbe, insieme all'invidia del mio fisico e dei miei lunghi capelli biondi.
S., però, ne sembrava immune. A lui piacevano di me, elementi e fattori del tutto trascurabili, tipo la mia velocità nel risolvere le divisioni a due cifre o la punta dei miei pastelli.
S. voleva che temperassi le matite dentro al suo astuccio, per conservare i trucioli che gli piaceva annusare. Lo trovavo feticista, quindi sempre più interessante. La voglia del bacio era stata rimpiazzata da quella di uscire con lui in bicicletta. Un po' per mancanza di alternative, un po' per stratagemma.
Una domenica pomeriggio lo invitai a casa mia chiedendogli di portare la bici. Sua madte lo accompagnò puntuale alle quattro, e lui si presentò con un mazzo di carte e i quaderni per fare i compiti. Piansi tanto, quella notte.
L'anno scolastico giunse presto al termine, non avevo avuto il mio bacio e dovevamo tornare in Svizzera. Passammo gli ultimi giorni in Italia a fare giri turistici, Firenze, Venezia, Roma, Napoli, e la casa di S. Era la prima volta che mi invitava. Era luglio, faceva caldo, ed io andai a casa sua in bicicletta, scortata dalla tata. Ci sedemmo sul suo letto piegando la testa, essendo il piano inferiore di un letto a castello. Mi fece vedere il suo libro sullo spazio; parlandomi dei buchi neri si confuse e annaspò avanti e indietro tra le pagine del libro in cerca del concetto che non era stato capace di spiegarmi. A me, a quei tempi, non fregava niente dei buchi neri. Neanche dello spazio. A me interessava capire come funzionava il bacio, ed S. per quanto goffo e taciturno, mi piaceva veramente tanto.
Ci salutammo in presenza dei nostri genitori, facendo gli indifferenti, come se l'addio fosse un onere che non doveva appartenerci.
- Io avrei voluto darti un bacio, quella volta dei buchi neri.
- Veramente io lo aspettavo da un anno, quel bacio.
- E se ce lo dessimo adesso?
- Troppo tardi, adesso i buchi neri mi interessano.
- Invece a me la Nemirovsky non mi ha mai interessato.
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