martedì 25 settembre 2018

Dopo i colori.



La grande terrazza assolata si apre al mio sguardo, impietosamente ogni bagliore sulle mie pupille viene riflesso dalle pietre grigio chiaro del pavimento che si intersecano formando disegni a mosaico verso i quali non provo alcun interesse, ma che mi trovo costretta a guardare; come i quadri appesi alle pareti delle sale d'aspetto. Mi riparo facendo calare gli occhiali da sole dalla testa al naso, un'operazione che compio innumerevoli volte in estate, quando il sole è quel compagno fin troppo conosciuto, morboso, detestabile, che mi spinge ad anelare continuamente solitudine buia, notte, novilunio e aria fresca rigenerante.
La grande terrazza è piena, capannelli di persone che sussurrano conversazioni infinite con l'accesso riservato. Cerco con lo sguardo il capannello che mi appartiene, quello identificabile da qualche faccia nota; un amico, un parente, un fratello. Un uomo alto, magro, dall'andatura dinoccolata, abbandona un gruppetto di parenti e viene verso di me, con aria decisa mi tende la mano e mi saluta pronunciando il mio nome con accento tedesco. La c dura del tedesco, i toni bassi, la poesia della costruzione sintattica latina: ognuno ha i suoi piaceri, il mio è la lingua tedesca che mai imparerò.
Dottore, come sta? Ci sono miglioramenti?
Le mie domande le sento chiare, nitide, uscire dalla bocca, concretizzarsi in attenzione altrui. Quel leggero tremolio interiore, in attesa della risposta. Quei secondi di sudore freddo tra le dita della mani, il cervello che si spegne, per proteggersi dal colpo, giusto il tempo necessario a non comprendere la risposta.
Scusi non ho capito, le spiace ripetere?
Tento di sedermi trascinandomi dietro una pesantissima sedia in ferro, non trovo corrispondenza dalla parte dell'interlocutore, che rimane fermo in piedi, con aria professionale. Esistono momenti in cui la desideri, la professionalità. Sul lavoro, quando hai bisogno di beni e servizi, quando esigi risoluzioni. E lo sai cos'è. La professionalità l'hai usata, l'hai studiata, l'hai, infine, imparata, per puro spirito di sopravvivenza. Adesso la esigo, ma con moderazione. Sia professionale, ma non troppo. Com'è umano lei quando mi piazza la realtà davanti agli occhi, alle orecchie, sotto questo sole insopportabile, che definisce i contorni rendendoli netti, senza alcuna morbidezza, né grazia.
Lo sa perché il colore preferito da Glenn Gould era il grigio?
Dietro gli occhiali da vista, il dottore alto, magro, dinoccolato, mi fissa in silenzio, si aspetta domande da parte mia. L'unica domanda potrebbe essere quella sul colore preferito di Gould e, come faccio spesso, elaboro dentro di me una risposta lunga, articolata, quasi professionale. Se non fosse per il sudore freddo tra le dita delle mani che mi rende troppo umana, e quindi timorosa e paranoica, io con questo dottore avvierei una conversazione sul grigio. Voglio scoprire cosa ne pensa, se è applicabile, come filosofia cromatica, ad Ippocrate, ad esempio, e a tutte quelle storie sulla natura umana, che tende sempre a lottare per sopravvivere e per preservarsi.
Non è esattamente così, vero dottore?
No, è la risposta. Esiste una zona grigia in cui lasciarsi andare. In cui luce ed oscurità si incontrano per rendere indefinibile ciò che prima era definibile. Sono l'incertezza, la possibilità ed il caso, che fanno il grigio e le sue gradazioni.
E perché non parlare di cinema, o di fotografia? Perché non ricordarsi dei fumetti, che alternavano le pagine a colori a quelle in bianco e nero. Ha mai letto topolino da piccolo? Come si dice topolino in tedesco? Si ricorda la fretta nel leggere le due pagine in bianco e nero, la smania e la felicità nel tuffarsi in quelle a colori una volta girata la pagina? Oppure ero io una fanciullina stupida? Dottore, diciamoci la verità, cosa ne sanno i bambini di oggi con i tablet al posto dei fumetti, della gioia dei colori dopo il bianco e nero? E come non parlare dei film e della loro colorizzazione? Ha presente It's a Wonderful life di Capra? L'ha mai visto colorato? E la faccia itterica di James Stewart?

Quando comincia la terapia?

L'aura luminosa intorno a noi non è grigia, ma giallo chiaro. Il cielo è velato da un sottile strato di foschia che amplifica la luce del sole molesto e morboso. Fa caldo, ma si sente freddo. Come diceva spesso mia nonna non ci si scalda in estate dal freddo interiore. Un vento leggero leggero si alza e mi spettina, i capelli coprono le labbra, le domande non mi escono più. Ci stringiamo la mano, la mia è più fredda della sua.
Ci rivedremo, purtroppo, caro dottore.

Un Pensiero.
Dedico questo breve post a Glenn Gould, nel giorno del suo compleanno, oggi, 25 settembre. Ci ha lasciato il 4 ottobre, all'età di cinquant'anni. Fortuitamente, la vita ha deciso che da tre anni a questa parte, ogni anno, proprio in questo periodo, io mi debba trovare a Toronto per lavoro. La città nella quale è nato, la città nella quale è morto e sepolto, la città che ha avuto la fortuna della consapevolezza, quella di rendere nota al mondo intero, la grandezza di un uomo come lui.
Lo dedico a lui perché Glenn Gould è il principale responsabile del mio amore incondizionato non solo verso la musica, ma verso il suo studio ed il suo approfondimento; la musica ed il suo studio, mi confortano, riescono a dare un senso all'assurdità del dolore. Scardinano ogni limite umano fino a fare percepire l'essenza altrimenti rarefatta, fuori dalla gabbia del corpo; sono il big bang emozionale e mentale che permette di scavalcare il reale per entrare nel sublime.

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